Capitolo 8
Anna si svegliò bruscamente: sentiva i padroni di casa litigare animatamente. Si vestì in fretta e scese al piano inferiore della casa, da dove provenivano le voci.
Passò per il corridoio e capì che le voci provenivano dal salotto. Mentre si stava dirigendo verso la stanza, la porta si spalancò e ne uscì la signora Rosa, visibilmente scossa. Non fece neanche caso ad Anna, le passò accanto infuriata e uscì di casa battendo la porta violentemente.
Anna allora entrò nel salotto, trovò il signor Antonio seduto sul divano che fissava il pavimento tenendosi la testa fra le mani.
“Signore…” iniziò Anna. Al suono della sua voce il giudice si sollevò.
“Va tutto bene?” chiese preoccupata Anna.
“Sì, non è niente di grave.” Rispose lui mogio. “La solita litigata fra moglie e marito.”
Anna però non credeva molto alla scusa. Anche perché vide che sul tavolino c’era una busta.
Era successo sicuramente qualcosa, e sapeva che centrava con quella busta sul tavolino. Doveva assolutamente leggerne il contenuto.
Osservò nuovamente il giudice, e notò che le occhiaie si erano fatte più profonde. Le venne una gran voglia di rivelargli ciò che stava facendo assieme a Fabio, per rasserenarlo. Ma non riuscì a dirlo, perché sapeva che lui non avrebbe capito. Sicuramente le avrebbe impedito di continuare le sue indagini, e lei per nulla al mondo poteva tirarsi indietro.
Così si morse il labbro e uscì dalla camera, attendendo che il giudice si allontanasse per impossessarsi della busta.
Il giudice, a dispetto delle sue speranze, si accomodò sulla poltrona. Si massaggiò le tempie ripetutamente prima di afferrare il suo cellulare. Lo guardò ancora indeciso. Poi cliccò sulla tastiera e infine cercò un numero nella rubrica. Poi finalmente si decise e chiamò.
“Pronto.” Rispose al telefono una voce annoiata e rauca.
“Giuseppe, sono io.. Nino, ho un urgente bisogno di parlarti in privato, vediamoci.” Disse in tono greve. In Sicilia avevano l’abitudine di abbreviare i nomi, e tra amici usavano spesso i nomi abbreviati, così Antonino divenne Nino.
“E’ successo qualcosa?” chiese Giuseppe stranito.
“Sì, ho bisogno del tuo aiuto.” Confermò il giudice.
Giuseppe capì che non era una questione di cui potevano parlare al telefono, così gli diede appuntamento nel suo ufficio.
Anna, sentendo la telefonata, intuì che stava succedendo qualcosa di importante. Attese che il giudice uscisse, poi, lo seguì di nascosto.
Il giudice si recò nella zona sud del paese, parcheggiò sotto la piazza Angelo Scandagliato. Anna ebbe difficoltà a seguirlo, poiché per arrivare alla piazza si dovevano salire quattro rampe di scale, ciascuna composta da una trentina di scalini. Il guaio era che se l’avesse seguito immediatamente, si sarebbe fatta scoprire. Fu costretta ad aspettare che il giudice salisse tutte le scale, poi lo seguì correndo. Arrivata in cima fu costretta a fermarsi qualche momento, per riprendere il fiato. ‘Accidenti, devo fare più esercizio fisico.’ Pensò. Sollevando il capo vide in lontananza il giudice entrare nel primo portone di via Roma a sinistra.
Anna sospirò, prima sollevata per non averlo perso di vista, poi sconfitta: non poteva mica seguirlo anche all’interno del palazzo.
Intanto il giudice arrivò alla porta di ingresso dell’abitazione del signor Giuseppe Ferdico.
Aprì proprio lui. “Nino che ci fai qui?” chiese visibilmente sorpreso. “Ma non dovevamo vederci in ufficio?” chiese con una punta di fastidio.
Il giudice non rispose subito, e Giuseppe notò immediatamente il suo sguardo stanco e pieno di speranza. Non se la sentì di rifiutarlo e lo fece accomodare in casa sua. Antonino ci era già stato in casa del suo amico, ma i mobili erano diversi, così come l’arredamento.
I mobili dallo stile classico avevano lasciato il posto a mobili moderni laccati di bianco e nero. Al posto del tavolo con le sedie c’era un comodo divano angolare in pelle. Al centro della stanza spiccava un tappeto bianco.
“Hai modernizzato casa vedo.” Commentò Antonino senza entusiasmo.
“Sì, conosci mia moglie, ama cambiare ogni tanto.” Disse accennando al giudice di sedersi sul divano. Dopo aver chiesto alla moglie di portargli due caffé prese posto accanto a lui.
“Dimmi Nino, cosa ti è successo? Sembri strano, direi distrutto.”
Il giudice si passò una mano tra i capelli, ancora indeciso, pensando se aveva fatto la cosa giusta.
“Hai problemi di soldi?” chiese Giuseppe.
“No!” rispose quasi infastidito il giudice. Dopodichè si passò le mani sulla faccia per scacciare via un po’ di stanchezza. Seguì un momento di silenzio.
“Giuseppe ho bisogno del tuo aiuto… è una cosa molto seria e difficile.” Disse Nino poggiandosi allo schienale, con il viso rivolto verso il tetto “devo sapere se posso fidarmi ciecamente di te.”
Giuseppe iniziò a preoccuparsi, “Ma che c’è? si tratta della mafia?” chiese con il cuore in gola.
Antonino non rispose neanche, lo guardò dritto negli occhi, più serio che mai.
Giuseppe lesse subito nei suoi occhi la sua paura.
“Minchia!” esclamò attonito. Seguirono lunghi attimi di silenzio. Interrotto dall’ingresso di Calogera, la moglie di Giuseppe.
“Grazie curù.” Disse Giuseppe alla moglie, che timidamente poggiò il vassoio sul tavolino di vetro, di fronte al divano.
“Lasciaci soli, dobbiamo parlare di faccende serie.” Gli disse a bassa voce all’orecchio. Poi le diede un bacio sulla guancia. E la moglie capì che la faccenda era troppo seria per poter ascoltare.
Quando furono di nuovo soli, Giuseppe bevve un sorso di caffé.
“Nino, di me puoi fidarti ciecamente, e lo sai benissimo; ma devi dirmi che problemi hai e come posso aiutarti, il tuo silenzio mi sta uccidendo.” Disse sfinito dall’attesa.
“Mia figlia è stata rapita.” Disse in un soffio, Antonino.
Giuseppe iniziò a tossire a causa del caffé andato di traverso.
“Tu sei l’unico di cui mi fidi, devi aiutarmi a trovare mia figlia, e liberarla.” Continuò il giudice.
“Ma cosa posso fare io da semplice investigatore privato?”
“Da investigatore privato niente, ma devi trovare gente fidata, magari qualche poliziotto che conosci di Palermo. Non lo so, io non so più che fare.”
Antonino gli raccontò ogni dettaglio, dalla telefonata alle lettere. Del suo litigio con la moglie contraria a chiedere il suo aiuto.
“Capisci? Se mi vedono fare qualcosa di strano con la polizia, mi mandano la piccola a pezzi. Ho bisogno che tu indaghi con i tuoi uomini più fidati.” Fece una pausa. Giuseppe intanto guardava il tappeto sotto i suoi piedi inespressivo. Sembrava che il suo cervello stesse ancora elaborando le informazioni per capirle. Aveva ascoltato con attenzione. Non immaginava di certo che potesse capitare una cosa del genere, in un paese piccolo come Sciacca. Eppure era successo.
“Mi aiuterai?” chiese Nino interrompendo il filo dei pensieri di Giuseppe.
“Non lo so Nino, insomma qui stiamo parlando di Carusi, è uno dei più potenti. Io non lo so, sono sorpreso, confuso. Ho bisogno di pensarci su.”
“D’accordo, pensaci bene e poi fammi sapere.” Disse Nino esausto.
Maria si sveglio con un fastidioso senso di pesantezza sulla caviglia. Non appena aprì gli occhi la prima cosa che vide furono i capelli rossi di Davide. Poi vide le sue palpebre chiuse e le sue invitanti labbra socchiuse. Immediatamente notò il braccio del ragazzo avvolto attorno a se: come se la stesse abbracciando. Si alzò bruscamente, intimorita e imbarazzata. Il dolore pulsante alla caviglia le fece ricordare in un baleno tutto quanto:
La notte passata a chiacchierare, le risate, il suo profumo che ricordava gli alberi di arance. E la opprimente sensazione di desiderare ciò che non si potrà mai avere. Simile a quando lei desiderava stare con i genitori, ma loro non potevano perché lavoravano.
Davide mugugnò nel sonno, e si voltò supino, infilando il braccio sotto al cuscino. Maria arrossì, lui era con il torace nudo, i capelli sparsi sul cuscino, studiò la linea del collo elegante, e del petto liscio. Sembrava una statua scolpita da Michelangelo, poi però vide le guance rosa, l’espressione terribilmente infantile di chi non ha intenzione di svegliarsi.
Maria iniziò a ridere, intenerita e imbarazzata. Non le era mai capitato di svegliarsi accanto ad un ragazzo. Davide si svegliò. Si guardò in giro un po’ smarrito, poi si sollevò a sedere. Si grattò la testa e scoccò uno sguardo assonnato a Maria.
“Buongiorno.” Disse con la voce impastata dal sonno.
“Buongiorno.” Rispose Maria.
Il rossino si alzò da letto stiracchiandosi, e si dilettò in alcuni esercizi di streching. Puntò un dito sulla ragazza “Se si sapesse che ho dormito con una ragazza, senza toccarla con un dito, rovinerei la mia reputazione.” Disse.
Maria sorrise “tranquillo, non lo dirò a nessuno. Anch’io ho una reputazione da difendere.”
Davide si morse il labbro, “uffa, ma perché non ti ho conosciuta prima?” disse distrattamente.
“Dai, rimettiti in ordine, ti porto la colazione.” Disse, dopodichè la lasciò sola.
Tornò dopo qualche minuto, lavato e pettinato. Si sedette accanto a lei, e le porse il vassoio con la colazione, composta da: latte, brioche, e una tazzina di caffé. Maria accettò con piacere, dividendo con lui il pasto.
Mentre lei mangiava, Davide aveva voglia di picchiarsi da solo. Aveva deciso di non farsi coinvolgere personalmente, ma dopo la serata trascorsa assieme a lei, aveva capito che quello che sentiva non era solo attrazione fisica. Sentiva un alto livello di sintonia fra di loro. E poi lei era così coraggiosa, e così dolce. Maria era il suo ideale di femmina, la donna che aveva aspettato di conoscere, eppure non poteva toccarla. Si sentiva una tigre chiusa in gabbia.
Maria finì di fare colazione, nel tirarsi su con le braccia, le venne una fitta alla caviglia che la fece gemere.
“Ah dimenticavo che il medico mi ha detto di mettere questa sulla caviglia.” Disse Davide tirando fuori dai pantaloni un tubetto di crema. Sì sedette sul letto ai piedi di Maria, e le fece poggiare il piede tra le sue gambe. Le tolse delicatamente le bende; il piede era livido e leggermente gonfio.
“Cavolo, deve farti un male cane.” Esclamò Davide. Poi delicatamente le spalmò la crema sulla caviglia. Maria soffocò un piccolo gemito. Quel suono, a Davide, sembrò tutt’altro che di dolore, anche se lo era. Nella sua mente sembrò un suono sensuale, un dolce invito.
La guardò negli occhi intensamente. Maria arrossì, mentre la mano di Davide iniziava a salire dalla caviglia verso la coscia. La pelle di Maria era così liscia e morbida, sembrava che venisse messa in risalto dalle grandi mani di Davide, con le nocche ossute e venose, tipiche da uomo. Lui avvertiva la voglia di morderle le cosce, di saltarle addosso e baciarla.
Quando lui arrivò al ginocchio, Maria gli fermò la mano.
“Guarda che la caviglia è più in basso.” Gli disse timorosa.
Dal suo sguardo, da come aveva tremato, lui capì che Maria non aveva ancora conosciuto un uomo a letto. La sua ammirazione crebbe, assieme alla sua voglia di conoscerla meglio.
-Cazzo, cazzo. Lei mi piace un casino, come farò a resistere? Quando cazzo fanno uscire a quel idiota. Non resisterò ancora a lungo.- pensò frustrato.
In quel momento lo squillare del suo cellulare, lo salvò dai suoi pensieri lascivi.
“Sì, va bene. Arriverò fra qualche minuto.” Disse, e chiuse la chiamata.
Si voltò verso Maria, uno sguardo diverso da quello precedente: sembrava preoccupato.
“Io devo andare, torno fra qualche oretta. Tu non fare sciocchezze. I miei colleghi non sono come me, loro sarebbero capaci di chiuderti in una cassa assieme a dei topi.”
Maria deglutì a vuoto. “N-no, non farò nulla. Ma tu sbrigati ok?” disse senza pensarci su.
Davide le sorrise intenerito, lottò contro se stesso per impedirsi di andare a baciarla.
Maria rimase sola nella stanza, confusa, eccitata, felice…poi, triste. Si era accorta che il contatto che aveva avuto con Davide non le era dispiaciuto. Il suo tocco delicato e caldo le piaceva, i suoi occhi poi, avevano il potere di incantarla. Avrebbe voluto che continuasse, lo avrebbe lasciato fare volentieri, per assaporarsi le emozioni che le riempivano il cuore, ma la ragione ebbe la meglio, e riuscì a fermarlo. Si era sentita bene in sua compagnia, avvertiva il desiderio di stare ancora con lui, ma poi una profonda tristezza si fece spazio nel suo stomaco. Sapeva che lei e Davide non potevano avere nemmeno un’amicizia in futuro, figuriamoci una storia.
Sapeva che in circostanze normali, lei lo avrebbe evitato, conoscendo il tipo di vita che faceva.
Lei sognava di diventare un medico, di fare qualcosa nella vita che l’avrebbe resa fiera di se stessa.
Doveva assolutamente togliersi dalla testa che Davide era affascinante. Doveva essere decisa e allontanarlo, anche se la solitudine e il buio la terrorizzavano. Soprattutto sapendo che gli altri due non la vedevano di buon occhio. Invece, nonostante tutto non volle rinunciare alla compagnia di Davide. Non sopportava rimanere sola, altrimenti strani pensieri le offuscavano il cervello. Mentre Davide aveva il dono di distrarla. Così anche se sapeva che non doveva farlo, decise che solo per il periodo di prigionia, lo avrebbe trattato come un amico. Si convinse che una volta uscita da lì, non lo avrebbe rivisto mai più. Quindi poteva anche concedersi il lusso di farci amicizia.
Anna intanto passeggiava nervosamente per la piazza. Si era preparata una borsa grande di paglia da usare come scusa. Se mai l’avesse sorpresa il giudice, avrebbe detto che stava andando alla “chiazza” a comperare un po’ di frutta. Ridiscese per l’ennesima volta la via. Incurante dei sguardi di alcuni anziani che passeggiavano lì vicino.
“Anna!” disse una voce maschile alle sue spalle.
Anna si voltò preoccupata, poi sospirò sollevata.
“Ciao Salvatore.” Rispose sorridente, subito dopo il sorriso gli morì sulle labbra quando vide il labbro spaccato e l’occhio nero e gonfio del cugino. Anna assunse subito una espressione preoccupata e gli afferrò il viso fra le mani, inspirando aria per fare le sue domande. Salvatore che la conosceva sollevò una mano e si scansò dalla presa impedendole di chiedere qualsiasi cosa. Poco dopo la invitò a prendersi un caffé, e lei ne approfittò per fargli qualche domanda.
Innanzitutto voleva sapere come aveva fatto a farsi un occhio nero.
Lui le rispose che non era niente di grave e che non doveva preoccuparsi.
“Hai scoperto qualcosa?” gli chiese. Salvatore le fece cenno, con un dito sulle labbra, di non parlarne in quel luogo. Così dopo essersi rinfrancati con un caffé, si misero a passeggiare in piazza.
Era a pianta rettangolare, da un lato vi era una strada stretta che divideva con la via Roma, dal altro lato c’era una ringhiera e da lì si poteva ammirare il panorama di Sciacca, del porto e alcune spiagge lontane. Ai lati perpendicolari cioè a sud vi era una piccola chiesetta, con un modesto giardino e una fontanella al centro del giardino.
“Allora? Hai qualcosa da farmi sapere?” chiese impaziente Anna.
“Cavolo, sono quasi geloso di questa ragazza. Sembri così attaccata a lei, manco io che sono un tuo parente!” si lamentò Salvatore.
“Dai lo sai che voglio bene a quella ragazza, come fosse la mia sorellina.” Disse per poi guardarlo ansiosamente negli occhi.
“Beh, qual cosina l’ho scoperta. Ma prima mi dici perché camminavi su e giù per la via Roma, mica è sabato sera?!”
“E’ che ho seguito il signor Alassi, e ho visto che è entrato in quel palazzo, e volevo scoprire da chi fosse andato. Speravo che uscisse con la persona che è andato a trovare. Ma non è ancora sceso.” Spiegò Anna guardando ripetutamente verso il portone.
“Stamattina ha chiamato un tizio e poi è uscito di fretta, credo si trattasse del tizio che abita lì. Ma non so chi sia.” Disse ancora, poi afferrò il braccio del ragazzo.
“Forza dimmi che hai scoperto.”
“Dunque, non è molto, ma ho notato che non si vedono più in giro alcune facce. Ho fatto finta di cercare Davide Giummare, per alcune cose, ma mi hanno detto che è impegnato in un lavoretto che lo farà stare fuori paese per un po’.. E sai una cosa, sono spariti anche i suoi due compari, con cui lavora spesso. Ovviamente anche loro due per lavoro. E non so il perché ma ho la sensazione che ci siamo vicini. Ho fatto qualche domanda in giro, e mi hanno detto che quei tre lavorano per Don Carusi. Ovviamente questa informazione mi è costato l’occhi nero. E da lì ho capito che questo Davide, è uno dei protetti di Luigi Carusi. Adesso è il massimo che ho scoperto.”
Anna lo abbracciò “Ti sbagli hai scoperto tantissimo!” gli disse raggiante. Quando rivide il livido sull’occhio Anna si rattristò nuovamente. “Ma adesso basta così, se ti hanno conciato così per delle domande, non oso immaginare cosa potrebbe succederti. Ti prego di perdonarmi: ti stai mettendo in pericolo per colpa mia. Non voglio che ti succeda niente. Sei l’unica famiglia che ho.” Gli disse mentre gli carezzava una guancia con fare materno.
Salvatore le sorrise, e passò un braccio attorno alle sue spalle.
“Lo so cuginetta mia, vale anche per me.” Disse dandole un bacio sulla guancia. “Ma non preoccuparti, mi avevano picchiato perché pensavano che fossi un poliziotto. Ma per fortuna è arrivato uno che mi conosce e mi ha aiutato, garantendo per me.”
Anna però era ugualmente preoccupata. Salvatore se ne accorse dal suo silenzio.
“Che mi racconti? Fa il bravo lo sbirro? O devo minacciarlo di morte?” le chiese scherzosamente.
“Ma smettila, è un brav’uomo.” Lo riprese lei.
“Sarà…., ma ho visto come ti guardava le tette.”
“Non è vero!!!” sbraitò Anna dandogli una pacca sulla testa.
“Ti giuro, ti guardava le tette, se non lo fermavo io, quello a momenti sbavava.” Continuò Salvatore.
Scherzarono per un paio di minuti così, poi si misero a parlare di musica e del progetto di Salvatore per andare in America. Lui le disse che andava a gonfie vele, e che stava anche studiando l’inglese, e per scherzare le parlava in inglese, per dimostrarglielo. Mentre parlavano del più e del meno, incontrarono il signor Alassi che era appena uscito dal palazzo. Il giudice li saluto e chiese ad Anna come mai fosse lì in piazza, invece di essere a casa sua a pulire.
“Sono venuta a comprare delle verdure per oggi a pranzo.” Rispose prontamente Anna.
“E chi è questo giovanotto?” chiese il giudice, scrutando Salvatore. Non gli andava molto a genio: era trasandato, con i capelli lunghi castani fino alle spalle, i piercing sul naso e sul sopraciglio. Due occhi marroni dallo sguardo un po’ truce. Si notava che era molto giovane, non poteva avere più di 19 anni. Aveva l’aspetto di un bullo secondo il signor Alassi, non gli piaceva il modo di fare di quel ragazzo.
“Lui è mio cugino Salvatore.” Disse Anna, mentre Salvatore tese la mano al giudice. Il giudice annuì
“Piacere.” Disse “Io vado di fretta mi attendono in ufficio.” Così dicendo si congedò.
Quando il giudice era ormai lontano, Salvatore sbuffò. “ma come fai a lavorare con questa gente che ha la puzza sotto il naso?” chiese infastidito.
“Ma no, il signor Alassi è un brav’uomo, cerca di comprenderlo, è teso per sua figlia.” Spiegò Anna.
“Ma sono tutti bravi uomini per te?”
Anna gli diede uno scappellotto. Poi si mise a ridere. In effetti il signor Alassi un po’ di puzza sotto il naso l’aveva. Anche se era gentilissimo con lei.
Il cugino chiese ad Anna di ascoltarlo mentre suonava il suo sax. All’inizio Anna rifiutò poiché voleva andare da Fabio e comunicare le novità. Ma il cugino insisté talmente tanto, che per fargli piacere accettò. La portò in un garage, dove lui teneva i suoi strumenti musicali.
Anna notò subito i grandi progressi che aveva fatto il cugino. Era diventato molto bravo a suonare. Si commosse. Quando il cugino smise di suonare, lei applaudì, con gioia.
“Totò sei diventato bravissimo, sono sicura che farai successo in america.” Disse.
“Sì, e poi ti ci porterò. E ti farò fare la vita da signora. Non sarai più costretta a fare la governante, perché avrai una tua cameriera personale che ti farà anche i massaggi ai piedi.” Le disse con gli occhi sognanti.
Anna si meravigliò, non pensava che suo cugino avesse considerato anche a lei nel suo progetto.
“E lì potrai studiare come detective. Diverrai la più brava, io lo so!” disse ancora Salvatore. Anna si era dimenticata che da bambina desiderava diventare una poliziotta. Quando i suoi genitori morirono, non ebbe più pensieri sui suoi sogni, gli unici pensieri che aveva erano solo per sopravvivere all’indomani. Si era dimenticata cosa si provava quando si sognava ad occhi aperti. Si era persino dimenticata che sognava di aprirsi un ufficio di detective privata.
“Ma ormai…” disse Anna, come se volesse dire che era diventata troppo vecchia.
“Ormai che cosa? Cazzo sei giovanissima, puoi fare tutto quello che vuoi. E vedrai che io ti aiuterò a realizzare i tuoi sogni.” Disse con la luce della determinazione negli occhi.
Anna gli sorrise dolcemente, rallegrandosi di vederlo così pieno di entusiasmo; lei ormai non viveva quelle emozioni da troppo tempo, improvvisamente si sentì molto vecchia, sentì che ormai l’entusiasmo di un tempo non sarebbe mai tornato, così lo guardò, mentre lui metteva via i suoi strumenti e lo invidiò.
Davide arrivò alla villa di Don Carusi in perfetto orario, trovò i soliti gorilla al portone. E come tutte le volte gli tolsero l’arma e lo perquisirono. Davide li fece fare tranquillo. Luigi non si fidava di nessuno, nemmeno di sua madre, ed era normale che prima di arrivare a lui c’erano questi tipi di controlli.
“Ammettilo che non centrano gli ordini, e che ne approfitti per toccarmi.” Scherzò Davide.
Piero, l’uomo che lo stava perquisendo grugnì qualcosa contro di lui.
“Mi dispiace per te, ma a me piacciono le ragazze.” Continuò imperterrito Davide.
“Cammina che il capo ti aspetta, e se ti azzardi a dire un’altra minchiata del genere, ti ci faccio arrivare storpio.” Lo minacciò.
“Scherzavo, mamma mia come sei permaloso.” Disse il rossino, mentre l’altro uomo se la rideva sotto i baffi.
La villa era sempre tenuta in un perfetto ordine, e Luigi sguazzava nella sua piscina privata. Dalla piscina, spaziando con lo sguardo,oltre il giardino, a destra, si vedevano le spiagge di capo San Marco, che continuano fino a disperdersi nell’orizzonte; alla sinistra invece si vedevano le scogliere, che separavano la spiaggia renella, da capo San Marco. La veduta da quel angolazione era da togliere il fiato. Davide si avvicinò tranquillamente alla piscina e si accomodò sulle sedie a sdraio, mentre attendeva che Luigi Carusi uscisse dall’acqua, o che comunque si avvicinasse a lui per parlare. Dopo che il capo si fece una vasca, uscì e si accomodò accanto a Davide, facendosi portare due Drink.
Luigi era un uomo di mezz’età, era un uomo che ci teneva al proprio aspetto, infatti spesso si dedicava allo sport. Si curava nello vestire e nell’aspetto. Era un uomo affascinante, e Davide voleva essere come lui alla sua età: bello da fare ancora strage di cuori.
“Come va tra i campi?” chiese Luigi rivolgendosi a Davide.
“Bene.” Rispose Davide tranquillo.
“State trattando bene la ragazzina? Ricordalo anche agli altri due che non dovete torcere un capello all’ostaggio.” Disse Luigi mentre si godeva un altro sorso della sua bevanda. Fece una lunga pausa, prima di continuare. “Fa attenzione a quel deficiente di Gianni; si dice che ultimamente tenta a far carriera. Anche con roba che non è sua. Sicuramente proverà anche a fregarti il posto.”
“Tsk, devono passare cento anni prima che lui riesca a farlo.” rispose Davide stizzito.
“Vedi, il fatto è che sa lavorare bene, ma non sa usare il cervello, quindi fagli abbassare la cresta, o sarò costretto a fare a meno di lui.” Disse Luigi tranquillamente, come se avesse parlato di una sciocchezza quotidiana. Davide sapeva benissimo cosa intendeva il suo boss, e non era di certo chiacchierare e fare il discorso a Gianni. Era costretto nuovamente ad essere duro e violento.
Davide si era chiesto fin dall’inizio perché l’ostaggio era speciale, e come mai dovevano trattarlo bene. Avevano sempre avuto carta bianca in quel tipo di mansioni. Eppure con Maria, il capo aveva chiesto particolarmente di trattare con i guanti la ragazza. Quasi fosse un parente.
Il capo si fece fare un resoconto della situazione nel rifugio. Davide non disse che la ragazza aveva tentato di fuggire; aveva omesso che era ferita. Se lo veniva a sapere, lui e i suoi uomini erano spacciati. Alla fine il capo soddisfatto, lo lasciò andare dandogli nuove direttive su cosa dire e fare con il giudice.
Tornato al rifugio, trovò tutto al loro posto. Gianni e Michele erano spaparanzati in cucina, a gustarsi un anguria. Davide prese due fette e si recò nella stanza di Maria.
La ragazza era seduta sul letto con le ginocchia strette al petto. Quando lo vide sollevò immediatamente la testa. Lui le sorrise e le porse la fetta di anguria.
“Com’è andata?” chiese tranquillamente.
“E’ andata bene.” Disse Maria. Dopo aver addentato il frutto, Maria si accorse che Davide era strano, sembrava più pensieroso del solito, e mangiava il frutto, con lo sguardo perso nel vuoto.
“Stai bene?” chiese Maria.
Davide scrollò la testa “Sì, sto bene, sono solo un po' stanco.”
In realtà, Davide, stava pensando di evitare di dare una lezione a Gianni, infondo, era l'ultimo lavoro a cui prendeva parte, e non aveva voglia di farsi dei nemici. Gianni, teneva rancore per molti anni, ed era anche un tipo ambizioso. Se si giocava male le carte, il suo progetto di espatrio poteva andare in fumo.
Pensava che se dava una lezione a Gianni, forse lui non avrebbe abbassato la cresta, ma si sarebbe infuriato di più, alimentando la sua voglia di vendetta, e sopratutto di rivalsa su un ragazzo giovane come lui. Se poi si metteva contro di lui, poteva smascherare la sua fuga dall'italia, e rovinare la sua vita per sempre, dato che spesso lavoravano assieme.
Guardò Maria, gli venne una gran voglia di portarsela via con se. Avrebbe potuto conoscerla meglio e lasciarsi andare ad una bella storia d'amore. Ma era troppo rischioso, non era un idiota, sapeva che doveva dimenticarsi di lei, e allontanarsi, decise di farlo immediatamente, anche per il bene della ragazza. Eppure, guardando i suoi occhi azzurri si rese conto che non aveva la forza di farlo. Quelli potevano essere gli ultimi istanti vissuti accanto a lei. Non che provasse già affetto per lei, ma non capitava mica tutti i giorni, di trovare una ragazza con cui si stava bene. Maria era intelligente, coraggiosa e sopratutto bella. Dopo quell'avventura non l'avrebbe più rivista, quindi cambiò idea e decise di godersi la sua compagnia, fino a quando ne aveva la possibilità.
Capitolo 9
Davide si svegliò di buon ora. Era passata un'altra settimana, e lui stava cominciando a prenderci gusto per quella impresa. Aveva preso più confidenza con la ragazza. Passava la maggior parte del tempo assieme a lei. Chiacchierando, mangiando, leggendo assieme dei libri. Una volta Maria aveva chiesto se poteva avere dei fogli e delle matite. Davide esaudì il suo desiderio, prestandosi anche come modello per i disegni di Maria. Davide scoprì che era molto brava sia a disegnare che a inventarsi storie. Davide invece aveva talento come fotografo, il suo soggetto preferito era Maria. La fotografava spesso quando per esempio assumeva un espressione particolare, oppure in penombra mentre dormiva. Davide si sentiva molto bene assieme a lei. Non c'era mai un momento in cui si annoiavano, spesso si capivano con uno sguardo. E capitava che Maria riuscisse a leggere i suoi pensieri attraverso gli occhi.
“Come ci riesci?” aveva chiesto una volta lui.
Maria gli rispose che non lo sapeva neanche lei. A poco a poco a Maria non interessava più tornare a casa, sperava che la sua permanenza in quel posto durasse il più a lungo possibile.
Sapeva che non era normale provare una sensazione del genere. Ma quando vedeva il sorriso di Davide, le sue preoccupazioni, e i suoi dubbi svanivano.
E i giorni passavano sempre nella sua stanza, su quel letto in ferro battuto e la finestra sprangata.
La caviglia era guarita. Sembrava che andasse tutto bene.
Una notte Davide entrò in camera della ragazza. Si avvicinò a lei adagio svegliandola.
All'inizio Maria ebbe il dubbio che lui volesse sedurla, invece le disse di seguirlo.
Se la portò sulla terrazza. Il cielo era limpido e in alto troneggiava la luna piena. La luce rischiarava tutta la valle intorno a loro. Le cicale frinivano, e l'aria era fresca.
“Beh qui si sta meglio della tua stanza che sa di metallo, non trovi?” disse Davide inspirando l'aria fresca.
“Wow, c'è una vista fantastica.” rispose Maria osservando il panorama: vedeva chiaramente le fronde degli alberi dai colori cineree, la terra era nera e da quel punto vedeva il maestoso olivastro che campeggiava solitario in un campo arato, mentre all’orizzonte si vedevano le luci della città, e in cima alla città si ergeva San Calogero, la basilica con sotto le stufe termali naturali, formate dai condotti vulcanici ormai spento. I ragazzi si sedettero sul muretto che fungeva da parapetto, godendosi lo spettacolo notturno.
Lei intrecciò i piedi e guardò in basso verso la valle. Sembrava incerta su qualcosa poi prese coraggio e si voltò a guardare negli occhi Davide.
“Vedendoti sempre qui, mi chiedevo se hai una casa, se hai una famiglia?” chiese Maria. “Gli altri due per esempio si danno i turni, come se avessero una famiglia di cui occuparsi. Tu invece non ti fai mai problemi, e dato che spesso dormi qui, ho pensato che tu forse vivi solo. O magari la tua famiglia sa chi sei e non ti dice niente.”
“No, io sono sempre stato solo, sono un orfano. Non ho mai conosciuto nessun parente. Credo che i miei genitori non fossero nemmeno di questo paese. Non ho mai trovato qualcuno che potesse essere collegato a me. Sono cresciuto in un collegio, poi quando sono diventato grande, mi arrangiavo con quello che c'era in giro. La mia vita era uno schifo, poi arrivò lui, il boss e mi regalò una vita migliore.” Le rispose Davide serio e stranamente sereno.
“Ma a che prezzo?” lo interruppe Maria.
Davide serrò la mascella “già” disse con lo sguardo perso nel vuoto.
Maria si sentì in colpa per averlo rattristato. Eppure la affascinava quella espressione, aveva il fascino del bello e dannato. Si chiese cosa si provasse a essere soli al mondo, provò a immedesimarsi in lui. Aveva una vaga sensazione di capire il motivo per cui Davide non aveva rifiutato la proposta del mafioso. La solitudine era schiacciante, non riusciva a immaginare una sofferenza peggiore. Pensò che l’interessamento del suo capo, fosse per lui come un’ancora di salvezza: non sarebbe stato più solo, e non avrebbe più sofferto di stenti.
“Sono meravigliata. Perché nonostante tutto, tu non sei come gli altri. Sei buono, ma molto forte.”
“Perché? Quanta gente mafiosa conosci tu? Chi ti dice che non sia solo una recita?” disse Davide.
“Una recita?” chiese quasi spaventata lei.
Davide sorrise “Magari sono il peggiore di tutti, il più sadico, potrei anche…”
“No.” Lo interruppe Maria sorridendogli in modo dolce. “Non uno che mi ha protetta in quel modo.” Si guardarono negli occhi, Davide si avvicinò a lei, desiderava baciarla. Maria non si mosse, rimanendo pietrificata al suo posto. Incoraggiandosi, Davide si avvicinò ancora, tentando di poggiare le labbra su quelle della ragazza. Maria sentiva il respiro di lui sulla guancia. Il cuore iniziò a battere forte, mentre le guance si imporporavano. Doveva allontanarsi porre fine a quella piccola illusione che gli stava dando, ma non ci riusciva, qualcosa la teneva ferma.
Improvvisamente Maria sentì un forte impulso a cui non poté resistere e starnutì. Nel farlo aveva portato velocemente la mano d’avanti alla bocca, colpendo sul naso il ragazzo.
Mentre Davide imprecava a bassa voce, tenendosi con la mano il naso dolorante, sentì la ragazza sbellicarsi dal ridere.
“Scusami, ti ho fatto male?” chiese lei mentre rideva.
“Nessuna mi ha mai rifiutato in modo così violento.” rispose scherzando lui.
Maria continuò a ridere mentre lui cercò di tornare normale, controllò meglio il setto nasale e notò che non c’era nulla di rotto, persino il bruciore era sparito.
Maria smise di ridere, o meglio frenò le altre risate, non voleva diventare scortese.
“Scusami è che mi è venuto freddo.” Disse continuando a sorridere. In effetti la sera era fresca e l’aria nella campagna era ancor più pungente che in città, Davide lo sapeva bene e di fatti aprì la zip della sua felpa e se la tolse coprendo le spalle della ragazza con essa.
Maria sorrise un po’ imbarazzata, quando lui faceva il galantuomo lei non sapeva come agire, si sentiva in imbarazzo, non era molto abituata a trattare con uomini del genere, i suoi coetanei erano per la maggior parte volgari e la trattavano come se fosse un compagno di giochi. Davide invece la faceva sentire una donna, una sorta di principessa, e non per nulla aveva iniziato anche a chiamarla in quel modo per scherzo, la svegliava chiamandola in quel modo. All’inizio Maria si sentiva infastidita da quel nomignolo, ma lui lo diceva così dolcemente che si ci abituò e lo trovò piacevole.
“Sente ancora freddo principessa?” chiese infatti qualche attimo dopo lui. Maria sorrise, il rossore sulle sue gote non era sparito. Scosse la testa.
“No, non più.” Disse stringendo la felpa su di sé. Maria non aveva dimenticato che lui aveva tentato di baciarla, e sperò in qualche modo strano che lui se ne fosse dimenticato. Così per non dargli una nuova occasione tornò a guardare la valle illuminata dalla luna.
“Sono passati un sacco di giorni da quando mi avete presa, sai alle volte mi chiedo cosa avete chiesto come riscatto. So che se fossero stati soldi io ormai sarei già a casa da parecchio. Sono preoccupata per mio padre, in televisione ho visto che è dimagrito molto, e ha due occhiaie spaventose.” Si girò di nuovo verso Davide e lo guardò negli occhi, doveva esserci curiosità nel suo sguardo, impazienza o qualcosa che dovesse comunicare che voleva andarsene, invece lo sguardo di Maria era lo sguardo di qualcuno che doveva partire, che avrebbe dovuto lasciare la sua famiglia per un posto lontano e sconosciuto.
“Quanto ancora dovrò stare qui con voi?” chiese; nella sua voce non c’era alcuna traccia di paura. Era combattuta con se stessa. Voleva andarsene, ma non voleva dire addio a Davide. E lui sembrò intuirlo o forse si era illuso che fosse così.
“Davide, una volta tornata a casa che accadrà se ti incontrerò pe…”
Le sue parole furono bruscamente interrotte dalla bocca di Davide che si posarono sulle labbra morbide e sensuali di Maria. Davide non aveva più resistito. Per non farla fuggire via, per impedirle di farsi rifiutare la abbracciò stretta fra le sue braccia, premendo con forza le labbra su quelle della ragazza.
Maria mugugnò sorpresa e un po’ spaventata, tentò di spingerlo via, ma le sue braccia erano intrappolate fra i due corpi. Davide non aveva resistito, dopo le parole di Maria improvvisamente ebbe una paura folle che una volta uscita da lì, lei lo avrebbe dimenticato per sempre, oppure che le venisse comandato di ucciderla o di spaventarla talmente tanto da renderla pazza. Aveva agito di istinto, il suo cuore gli diceva che non doveva permettere che lei pensasse di andarsene. Era stufo di starle vicino e comportarsi come un amico, era stufo di sudare freddo quando sentiva il calore del suo corpo vicino. Era ancora più stufo di farsi in continuazione docce fredde. In quel abbraccio trasmetteva tutta la sua brama di averla. La desiderava e a quel contatto ormai non ragionava più, continuò a baciarla, sempre più appassionatamente. A occhi chiusi, come se avesse paura di scorgere una sua espressione di repulsione, non voleva vederla in quel modo, voleva soddisfare il suo egoistico istinto di quel momento. Quando sentì sotto le labbra la ragazza che lo ricambiava si calmò un po’ strinse di meno senza però lasciarla andare. Il bacio divenne meno pressante ma più complice. Non si era mai sentito così soddisfatto in vita sua, non si era mai sentito così bene come in quel momento mentre la stringeva fra le sue braccia. Gli sembrò di sentire la felicità, soprattutto quando le loro lingue si sfioravano. Davide era immerso in un mondo a parte, aveva dimenticato tutto, se in quel momento gli avessero chiesto come si chiamasse, lui non sarebbe stato in grado di rispondere. Era tutto così strano, man mano che i battiti cardiaci si calmarono anche la ragione era tornata a farsi viva: stava sbagliando. Il bacio divenne sempre meno intenso fin quando non divenne un piccolo bacio a fior di labbra. Si allontanò un po’ dalla ragazza, sciogliendo anche la stretta attorno a lei. La guardò negli occhi colpevole, come se avesse abusato di lei.
“Oddio che ho fatto?!” sussurrò mettendosi le mani fra i capelli.
“Scusami, io non avrei dovuto.” Disse eppure sentiva ancora sulle labbra quel desiderio di baciarla ancora, sapeva che aveva sbagliato, eppure non si sentiva affatto pentito.
Maria abbassò lo sguardo, aveva ancora il cuore che batteva forte nel petto per l’emozione. All’inizio si era spaventata, non se lo aspettava, per un momento aveva creduto che volesse abusare di lei, ma poi sotto le dita sentì il battito del cuore di lui. Sentì come le sue mani serrate attorno al corpo avevano tremato. Si era lasciata andare e lo aveva trovato piacevole. Però perfino lei sapeva che non avrebbero dovuto farlo.
“Torniamo dentro, la luna rende gli uomini deboli.” Disse Davide con un sorriso amaro, cercando di sdrammatizzare. Maria obbedì in silenzio tornando sul suo giaciglio, su cui avrebbe passato la notte da sola. Davide infatti decise di lasciarla sola il più a lungo possibile.
Anna si trovava in cucina a preparare il pranzo, si sentiva sempre più esausta. Erano passate due settimane da quando Maria era stata rapita. Stava perdendo le speranze, ma sopratutto la pazienza.
Tagliava le melanzane svogliatamente, mentre aveva una gran voglia di piangere e sfogarsi.
Voleva rivedere Maria. Desiderava che fosse tutto un incubo, e che si sarebbe svegliata da un momento all'altro. Quindi sarebbe scesa in cucina, e ci avrebbe trovato Maria, come tutte le mattine che guardava alcuni cartoni animati, mentre si gustava un caffè. Dunque come al solito, Anna le chiedeva se volesse un po' di latte, che lei avrebbe rifiutato, come al solito. E avrebbe passato una solita banale giornata, tra faccende domestiche e musica.
Invece, con l'arrivo del giudice in cucina, ogni illusione sparì, rendendosi conto che la realtà era crudele. Il giudice era impeccabile nel suo abito formale, pettinato bene, ma aveva occhiaie profonde. Anche il giudice diventava sempre più stanco.
Anna si chiese se era il caso di continuare a fingere di non sapere nulla. Sembrava che i due coniugi, non si rendessero conto della sofferenza che provava lei. Probabilmente erano troppo preoccupati per Maria, per accorgersi anche di lei. E a lei sinceramente faceva solo comodo.
“Quando tornerà, la piccola?” chiese improvvisamente Anna.
Il giudice sembrò sorpreso, si era dimenticato che le avevano mentito.
“Presto, tornerà presto.” aveva risposto Antonino, con un sorriso triste. Era sempre stato negato a nascondere le proprie emozioni. Anna pensò che era meglio raccontargli la verità, e dirgli che sapeva del sequestro. Si morse il labbro, e serrò la mano attorno al manico del coltello che stava usando poco prima per tagliare del pane.
“Signor Alassi, io dovrei....” non finì la frase che il suo cellulare iniziò a suonare.
Lesse sul display “Fabio”. Anna lasciò immediatamente tutto quello che stava facendo e si recò in un'altra stanza. Rispose immediatamente, speranzosa di buone notizie.
“E' stato avvistato un uomo segnalato da Salvatore.” disse Fabio all'altro capo del telefono.
“Mi ha chiamato tuo cugino, e mi ha detto che lo stava seguendo.”
“Merda! Si metterà nei casini.” disse Anna preoccupata.
“Sono sotto la villa, esci con una scusa, e andiamo a fermare tuo cugino, io ci ho provato, ma non mi ha dato retta. Siamo ancora in tempo. A te ascolterà.” disse Fabio.
Anna non se lo fece ripetere, si tolse il grembiule e si indirizzò verso l'uscita.
“Dove vai Anna?” chiese il giudice che era appena uscito dalla cucina.
“Ho dimenticato l'aglio, vado a comprarlo e torno subito.” disse lei, per poi uscire in fretta.
Il giudice aggrottò la fronte, mentre osservava la treccia di aglio appesa alla parete della cucina.
“Dove si trova quel pazzo di mio cugino?” chiese Anna in ansia, mentre montò in macchina.
“Stava aspettando che questo tizio uscisse dal bar, era appena entrato. Quindi siamo in tempo.”
Fabio fece una pausa prima di continuare: “Volevo seguire il sospettato da solo, senza dare nell'occhio, ma tuo cugino con uno scooter si farà scoprire senz'altro. Per prima cosa dobbiamo fermare tuo cugino, e poi scoprire se quello è il bar abituale di quel tizio. Se fosse così, e loro hanno Maria, abbiamo vinto.”
Fabio guidò la sua macchina sfrecciando prima nel centro, poi si diressero verso il bar chiamato “Westside”. Era un bar vicino al ponte che portava verso Sant'anna; sotto al ponte, c'erano due svincoli, uno che tirava per Agrigento, e l'altro che invece portava verso Palermo.
Quando arrivarono, Anna scese immediatamente. Dirigendosi all'ingresso, videro che non c'era nessuno Scooter che potesse somigliare a quello di Salvatore. Fabio e Anna si precipitarono all'interno del locale. Ma non c'era ne suo cugino, ne Gianni: l'uomo che Anna vide nelle foto segnaletiche.
“Merda!” esclamò Anna. Si mise una mano tra i capelli. Spaziando con lo sguardo notò Stefano, un amico di suo cugino Salvatore.
“Ciao Stefano, hai visto mio cugino?” chiese senza mezzi termini.
“E' uscito pochi minuti fa. Avevi un appuntamento con lui?” chiese ingenuamente l'amico.
“Sai dove si è diretto?” chiese Fabio.
Il ragazzo lo guardò con diffidenza, poi guardò Anna, riluttante a rispondergli.
“Lui è il mio ragazzo, ha dimenticato una cosa nel suo Scooter. Gli serve per lavorare.” gli disse per reprimere ogni suo sospetto.
“Non lo so, ho visto che con lo Scooter ha preso la via per la fondovalle.” disse poi finalmente.
Anna e Fabio sgattaiolarono subito fuori. Anna aveva un brutto presentimento.
“Lo ha seguito senz'altro, quello scemo per fare piacere a me lo ha seguito.” disse Anna con la voce rotta per l'emozione.
“Ma tuo cugino è innamorato di te o cosa?!” sbraitò Fabio confuso.
“Che vai a dire? Salvatore è la mia unica famiglia. Siamo come fratello e sorella.” disse quasi adirata. “Che c'è sei geloso?” sbottò lei senza mezzi termini.
“Figurati, io geloso?” rispose. In circostanze normali, non avrebbero avuto una conversazione simile. Fabio sapeva del profondo legame che c’era tra loro. Era stata l’agitazione a farlo straparlare.
“Merda più avanti ci sono due svincoli, dove diavolo si sarà infiltrato?” disse Fabio.
“Io conosco quello di sinistra, e so che porta a mare, verso San Marco.” Rispose Anna.
“Lì c'è la casa di Don Carusi, e se quel Gianni ha a che fare con il sequestro di Maria. Non può tenerla vicino al suo capo. Quindi io direi di provare lo svincolo a destra: quello che porta alla contrada Scuncipane.”
Presero per quella strada, guidò per alcuni chilometri, senza trovare alcuna traccia.
Ad un certo punto trovarono un incrocio: la strada di fronte a loro diventava sterrata, mentre alla loro sinistra continuava quella asfaltata. Stavano perdendo ogni speranza, quando Anna con la coda dell'occhio vide una cosa scura, alla sua sinistra, sulla strada asfaltata.
“Gira di qua, ho visto una cosa.” disse Anna. Fabio eseguì il comando. Dopo qualche centinaio di metri, trovarono lo scooter di Salvatore in mezzo alla strada; la plastica che ricopriva il motore era saltato, i fanalini erano rotti e i vetri erano riversi a terra, assieme agli specchi retrovisori rotti. A qualche metro più avanti giaceva al suolo Salvatore. Anna si precipitò fuori dal veicolo: i suoi occhi erano spalancati dal terrore. Si mise a correre verso il ragazzo. Quando vide la pozza di sangue espandersi sotto di lui urlò disperata, gettandosi sul corpo del giovane. Il viso del ragazzo era divenuta una maschera di sangue, uno zigomo era rotto, deformando il suo viso. La gamba sinistra era piegata in modo innaturale.
“NO!” urlò la donna. Mentre con mani tremanti gli carezzava la testa.
Fabio si avvicinò immediatamente, controllò il polso, poi il collo. Anna si immobilizzò al suo posto, sperando con tutte le forze che fosse ancora vivo, che Fabio gli dicesse di chiamare un ambulanza.
Ma lo sguardo di Fabio era triste, e scosse la testa lentamente.
“Mi dispiace, non c'è più niente da fare.” disse.
Seguì un straziante urlo di dolore; Anna si gettò sul corpo urlando e piangendo. “No, lui doveva andare in America. NON E' GIUSTO!” urlava tra i singhiozzi.
Invano Fabio cercò di calmarla. Dovette strapparla dal ragazzo con la forza.
“Calmati, cerca di calmarti.” Ripeteva Fabio, ma lei si aggrappò alla sua giacca piangendo disperatamente. Fabio la strinse a sé cercando invano di calmarla.
Mentre teneva la donna salda prese il suo telefonino chiamando la polizia.
“C’è stato un incidente, mandate un medico legale.” Disse.
Poi abbracciò Anna a sé lasciandola sfogare, si sentì in colpa ancora una volta, pensò che se lo avesse fermato con la forza non sarebbe successo nulla. Baciò sulla testa la donna e con uno sguardo carico di tristezza ripeté più volte.
“Mi dispiace, mi dispiace.”