Terryfumetti

L'ostaggio, Storia originale ambientata in sicilia e precisamente a Sciacca.

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view post Posted on 12/9/2010, 10:23
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Dalla terza vita

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Maria, la figlia del giudice

Il sole bruciava l’asfalto di Sciacca, un paese di collina che si affacciava sul mare: un luogo in cui la maggior parte degli abitanti si conosceva tra loro. Era una città che profumava di gelsomini e limoni. Se faceva caldo, e non avevi voglia di andare a scuola, potevi organizzarti con un’amica, e con lo scooter raggiungere la spiaggia, che si trovava a pochi chilometri di distanza dal centro abitato.
-Uffa! Oggi la prof interroga, e io non ho studiato!- pensò Maria, una ragazza dai lunghi capelli neri e ricci. Mentre, seduta sugli scalini di una casa, aspettava di veder scendere l’amica con cui solitamente andava a scuola.
“Ciao Maria!” la voce di Siria colse di sorpresa la ragazza, ancora seduta sulla scalinata.
“Ciao Siria! Ieri hai studiato storia?”
“No, accidenti! Oggi c’è la prof. che interroga!” rispose Siria, piagnucolando per la preoccupazione.
Maria si alzò, sfoderando uno dei suoi sorrisi furbi, e con la mano le fece cenno di avvicinarsi al suo motorino, uno scooter cinquanta nero con dettagli cromati. Sollevò il sellino e invitò la sua amica a guardare dentro il porta oggetti.
Siria vide un paio di asciugamani e due bikini colorati.
Maria richiuse il sellino, con evidente soddisfazione e tutta l’aria di chi vuol marinare la scuola per andarsene al mare, e disse: “Non credi che faccia caldo oggi?”
Siria all'inizio rimase seria, abbassò lo sguardo, e una strana sensazione s'impadronì di lei: si sentiva un verme. Si morse un labbro, e con una mano andò a spostarsi una ciocca bionda dal viso, poi prese coraggio e parlò: “Senti Maria… io devo parlarti di una cosa importante.”
Siria alzò lo sguardo e l’appuntò negli occhi dell’amica, mentre Maria, sconcertata, la osservava interrogativa.
“D'accordo, andiamo al parco delle terme? Lì staremo tranquille e potremo parlarne.”
Siria annuì. Maria cominciava a preoccuparsi per lei, non l’aveva mai vista così seria. Montarono sullo scooter e sfrecciarono tra le auto del traffico mattiniero.
Quando arrivarono, passeggiarono per qualche minuto nella piazzetta di fronte alla villa, vicino la ringhiera, sporgeva sull’alta scogliera del mare di Sciacca. Si fermarono a guardare il panorama marino, da li si vedeva il porto, e le spiagge vicino alla vecchia fornace.
Alcuni turisti si erano fermati a fotografare il posto. A Maria quel luogo piaceva molto, perché, con una sola occhiata, poteva scorgere sia la città che il mare.
“Maria, io non so come dirtelo …”cominciò titubante Siria.
“Forza, siamo amiche, o no? Spara, qualunque cosa sia non devi preoccuparti!”
Siria strinse le mani al parapetto” e guardò giù, verso il mare, come se quella distesa azzurra potesse darle la forza di parlare.
“Maria, io e Marco ci siamo fidanzati!” disse tutto d’un fiato.
Maria rimase lì, ferma, a boccheggiare per qualche secondo; si sentiva morire, come se avesse ricevuto un pugno sullo stomaco.
“Co-cosa?” riuscì a balbettare, incredula.
“Maria mi dispiace, ma l’altro giorno si è dichiarato. Io non te l’ho mai detto, ma… Marco piaceva tanto anche a me, e tu non ti decidevi a farti avanti, così ho accettato la sua corte!”
“M-ma io credevo che fossi cotta di Massimo!” sbraitò Maria, confusa e arrabbiata.
Siria però non le rispose, continuando a guardare il mare.
Maria sentiva la rabbia crescere in sé.
Quando Massimo era andato da lei per chiederle di uscire, aveva rifiutato categoricamente, perché sapeva che Siria era pazza di lui. E lei, invece, non ci aveva pensato due volte a tradirla. Come aveva potuto fidanzarsi con il ragazzo di cui era stracotta? E poi lei lo aveva sempre criticato, arrivando spesso a litigarci. Come era potuto succedere? Maria si sentiva tradita, delusa, e non riusciva a capacitarsene.
“Sei una pezza di merda!” le disse piena di rancore; poi le voltò le spalle e se ne andò con passo deciso.
“Aspetta! Maria, io..!” gridava intanto Siria, cercando di raggiungerla, nonostante non sapesse cosa aggiungere ai suoi appelli. Non voleva perdere Maria come amica, ma ormai aveva accettato la proposta di Marco.
Maria azionò l’acceleratore e sfrecciò via con il suo scooter.
“Maria…” fece Siria, guardando le spalle della sua amica scomparire dietro le auto.

Marco era un bel ragazzo, alto, occhi castani e lunghi capelli neri, che spesso teneva legati in una coda bassa. Aveva la pelle ambrata, e un fisico longilineo, magro. Non riscuoteva molto successo tra le studentesse della scuola, forse perché tutte smaniavano per il ragazzo più carino dell’istituto: Luca, capelli chiari e occhi azzurri, vivaci. A Maria non piacevano i ragazzi pallidi, lei preferiva quelli dalla pelle scura, allegri e solari. Luca, invece, si dava delle arie da divo di Hollywood, e recitava la parte del bel tenebroso; e a lei suscitava solo antipatia, perché sapeva di tutti i cuori che aveva infranto. Le sue amiche, però, non capivano cosa avesse contro di lui. Più di una volta aveva chiesto loro: “Ma come fa a piacervi un simile idiota, tutto muscoli e niente cervello?” ma nessuna sembrava accorgersi dell’immensa stupidità di Luca. Marco, invece, era tutto il contrario. Era il primo della classe, era sempre allegro e circondato da amici. Ma quello che contava maggiormente era il suo essere semplice e diretto; e se anche qualcuna lo guardava in maniera speciale, lui non ci dava peso, limitandosi a scherzare e a trattare tutti come buoni amici. Aveva sempre il sorriso disegnato sulle labbra carnose… E adesso quelle labbra le avrebbe sfiorate Siria.
Maria si morse il labbro."Vatti a fidare degli amici." pensò la ragazza, ancora arrabbiata.
E dire che le avevano soprannominate le “Veline di striscia”, dato che stavano sempre assieme e che lei era mora e la sua amica bionda.
Arrivò a casa sua, una grande villa, con un giardino che era l’orgoglio di suo padre; poi entrò sbattendo la porta.
“Maria, non sei andata a scuola?” la voce della cameriera arrivò prima di lei.
Anna, la cameriera, uscì dalla cucina con il grembiulino bianco e due patate in mano. Era una giovane donna di ventotto anni, aveva gli occhi castani grandi e vivaci, e i capelli dello stesso colore legati in una coda di cavallo. Indossava dei comodi jeans, e una t-shirt colorata.
Maria distolse gli occhi dal viso della donna, la sorpassò e si mise a correre verso la sua stanza.
Anna lasciò le patate, si tolse il grembiulino e, senza farsi problemi, seguì la ragazza.
Entrò nella sua stanza e trovò Maria sdraiata a pancia in giù, che stringeva fra le braccia il suo cuscino.
Anna si sedette accanto a lei, sul letto, e poggiò delicatamente una mano sulle sue spalle.
“E' successo qualcosa?” chiese, spostandole una ciocca di capelli che le ricadeva sul viso.
Maria non ce la fece più, e scoppiò a piangere.
“Su, piccola… dimmi, cos’è che ti tormenta?” Maria si aggrappò al collo della donna, continuando a piangere.
“Oh, Anna!” disse in un singhiozzo.
La cameriera sorrise dolcemente; voleva bene a Maria, l’aveva vista crescere, e le si era affezionata incredibilmente, come se fosse stata la sua sorellina. D’altronde, aveva solo ventotto anni, mentre Maria ne aveva diciassette, senza contare che la ragazza passava molto più tempo con lei che non con i suoi genitori, sempre impegnati con il lavoro. Il padre di Maria era un giudice famoso e molto influente, mentre sua madre lavorava al comune come ministro. In pratica, con la figlia passavano unicamente i fine settimana; ma anche in quelle occasioni, spesso entrambi restavano attaccati al telefono per ore e ore. Per questo motivo Maria si confidava spesso con lei, e Anna le dava dei consigli.
“Quella stronza di Siria..” disse Maria, tirando su con il naso “si è fidanzata con Marco senza chiedermi il permesso!”
Così prese a raccontarle l’accaduto nel dettaglio; poi, quand’ebbe terminato, mangiarono del gelato.
Per Maria, la giornata sembrò improvvisamente aver preso un’altra piega. Mandò tutti all’inferno e si sentì più leggera: da quel momento in poi, non avrebbe più parlato con Siria.
“Che ne dici di arrivare in spiaggia e di farci un bel bagno?” propose Anna.
“E per il pranzo? Come farai?”
“ Preparerò pasta all’aglio e olio, un qualcosa di sbrigativo, insomma. Vedrai che conosceremo un altro ragazzo che ti farà dimenticare immediatamente quell’idiota di Marco!”
Maria sorrise e si alzò, decisa a seguire il consiglio della sua vera e unica amica.
Era da tempo ormai, che Anna viveva da loro, come un altro membro della famiglia. Era stata assunta giovanissima, quando aveva appena quindici anni. Aveva perso i suoi genitori in un incidente d’auto, e si era ritrovata da sola, sballottata da un parente all’altro. In seguito quando aveva compiuto i suoi quindici anni, aveva deciso di lavorare sodo, badando a sé stessa per conto suo. Ma era solo una ragazzina, e nessuno era disposto a prenderla sul serio, a darle un lavoro, se non sottopagato; e lei non voleva farsi sfruttare fino al midollo per sempre. Era disperata: con i pochi spiccioli che ricavava dalle sue fatiche, non poteva nemmeno permettersi di affittare una casa. Poi, un giorno incontrò Maria. La trovò che piangeva sulle scalinate di un palazzo, con indosso lo zainetto dell’asilo. La piccola si era persa, perché, come le aveva raccontato tra i singhiozzi, voleva dimostrare alla madre di essere in grado di tornare a casa da sola, senza essere accompagnata da quell’antipatico del suo autista. Anna la rassicurò, e dopo essersi fatta spiegare a grandi linee dove abitava, la accompagnò verso casa. Quando raggiunsero la villa, la prima cosa che notò fu una donna fuori di sé, che, come scoprì dopo, era la madre di Maria. La signora urlava, in preda al panico, e rimproverava aspramente l’autista per la sua negligenza. Inutile dire che l’uomo fu licenziato in tronco. Anna rimase meravigliata da quella casa ampia e lussuosa e, al confronto, si sentì sporca e vestita di stracci. Per questo motivo, Non volle neanche salire sul pianerottolo, limitandosi a osservare la scena dell’abbraccio tra madre e figlia da lontano. Stava per andarsene, quando la signora la invitò dentro per ringraziarla. Le offrì del caffé e dei biscotti. Poi, Maria insisté affinché Anna vedesse la sua cameretta. Le mostrò i suoi giocattoli e dopo ancora la portò in giardino. Infine, persino Rosa, la madre della piccola, la trattò con estrema gentilezza, invitandola a pranzo. Subito Anna rifiutò l’offerta, perché non voleva arrecare disturbo ma Maria si mise a piagnucolare, costringendola ad accettare.
Così Rosa la portò in cucina, dove Anna l’aiutò a preparare il pranzo. Quando si accomodarono a tavola, Rosa si mise in braccio la piccola per farla mangiare. La donna era molto amorevole, e Anna, nell’osservarle, fu invasa dalla malinconia. Scoppiò a piangere. Senza sapere il perché finì per confidarsi con la donna che era stata così gentile con lei. Le raccontò dell’incidente d’auto in cui i suoi genitori morirono, le disse che era disperata, che voleva un lavoro, e che era stanca di essere sballottata da un parente all’altro. Proprio allora Maria l’abbracciò forte e disse la frase che le avrebbe cambiato la vita: “Mamma, può restare a vivere con noi?”. Rosa non rispose subito a quella domanda. Osservò per un po’ la ragazza, e le domandò se era capace di svolgere le faccende domestiche. Lei rispose di sì. Da quel giorno Anna fu assunta come governante. Il suo compito era quello di tenere in ordine la casa e di occuparsi di Maria quando i suoi genitori non potevano. Era stata proprio la piccola Maria a salvarla dal baratro della solitudine; ed era stata sempre lei a regalarle il calore di una famiglia.



“Accidenti! Dobbiamo rimandare a domani, quella ragazza ha agito fuori dai nostri schemi.” Disse un uomo che guardava attraverso il suo cannocchiale in direzione della villa. Era nerboruto, dalla pelle scura, con una cicatrice che gli solcava la guancia, e la testa completamente calva.
“Gianni, maledetto idiota! Posa quell’affare, vuoi che ci scoprano?” lo rimproverò dal posto guida un uomo che fumava nervosamente una sigaretta. Il fumo andava infilandosi tra i suoi ricci castani, portati corti e gonfi in uno stile anni ‘80, di cui era un fanatico.
“Ehi, Michele! Tieniti pronto a seguirla, non ho intenzioni di rimandare a domani. Il colpo si fa oggi.”disse Davide dal sedile anteriore. Davide era un bel ragazzo di ventidue anni, alto, con due profondi occhi verdi e lunghi capelli rossi. La sua testa sembrava una sorta di ribellione al mondo intero, il colore non era di un rosso ramato naturale ma di una tinta più accesa, come il sole al tramonto; spesso li portava sciolti, ma, con il caldo che faceva in quei giorni, aveva preferito raccoglierli in una coda, con qualche ciuffo ribelle che, nonostante tutto, gli ricadeva sul viso. Per via del suo aspetto particolare in generale, più di una volta, Davide si era ritrovato a litigare con quelli che non avevano saputo astenersi dal fare commenti. Vestiva in modo semplice, con un paio di jeans stracciati e una maglietta senza maniche bianca, che gli sottolineava il fisico atletico.
“Però, notevole. La ragazzina non è niente male.” disse Gianni, trafficando con il cannocchiale.
“Sembri un vecchio maniaco.” si lamentò Davide.
“Ha parlato il santarellino!”
Il rossino borbottò un “tsk”, mettendosi tra le labbra una sigaretta. Aveva giurato che quello sarebbe stato l’ultimo lavoro che avrebbe fatto, e che, con i soldi che ne avrebbe ricavato, sarebbe uscito fuori dal giro della malavita, sarebbe sparito dalla circolazione, e se ne sarebbe andato per sempre in Giappone dove aveva sempre sognato di vivere.
Davide era il più giovane tra quelli che lavoravano per Don Carusi, il mafioso del paese. Era poco più che un adolescente diciassettenne, quando venne notato da Luigi, il figlio del boss, che lo osservava dalla finestra, mentre faceva a botte con tre ragazzi più grandi di lui. Tutto era cominciato quando i tre seccatori avevano interrotto il rosso, intento a corteggiare una ragazza. Lo avevano trascinato via in malo modo, e mentre due lo tenevano fermo, e il terzo lo prendeva a pugni, approfittando della loro superiorità numerica. A fatica, Davide era riuscito a divincolarsi dalla morsa degli aggressori, iniziando a difendersi. Ne era uscito con vari ematomi e un occhio nero, ma tutto sommato, poteva ritenersi soddisfatto di avergli dato una lezione a suon di arti marziali. Quella sera stessa, Luigi aveva rincontrato Davide in paese, e in quell’occasione il rosso lo aveva lasciato a dir poco stupito. Gli stessi ragazzi che lo avevano aggredito solo qualche ora prima, infatti, in quel momento lo servivano e riverivano, chi offrendogli una sedia, chi accendendogli una sigaretta, e chi porgendogli una birra.
Luigi Non era riuscito a trattenere una risata, decidendo così di mandare uno dei suoi uomini ad invitarlo. Era stato proprio tra le mura della lussuosa villa del figlio del boss, che Davide aveva ricevuto la sua prima proposta di lavoro, un’occupazione che gli avrebbe permesso di guadagnare facilmente un mucchio di soldi.
Non aveva accettato subito, ma ben presto si era convinto, dimostrando, inoltre, di essere particolarmente in gamba. Presto divenne uno dei più richiesti per i lavoretti loschi. Aveva la fedina penale pulita, e questo si era rivelato particolarmente utile. Era stato posto a capo di un modesto gruppo di picchiatori a soli diciannove anni.
I picchiatori erano quelli che persuadevano le persone a collaborare e a non mettersi contro Don Carusi. La posta che mettevano in gioco in questo sporco ricatto, era un’esistenza pacifica e la vita. Si occupavano, inoltre, di mantenere l’ordine fra i diversi gruppi, che spesso si mettevano in competizione per far carriera nel mondo del crimine.
Tempo dopo, venne incaricato ai sequestri, e questo era il terzo a cui faceva parte.
Le sue occupazioni gli avevano sempre reso molto denaro ma Davide era stanco della violenza e della malavita; ora desiderava una vita tranquilla, e soprattutto la sua libertà. Ma sapeva bene che per uscire dalla famiglia di Don Carusi c'era solamente un modo: la morte. L’alternativa era fuggire, far perdere le sue tracce. Ma per farlo aveva bisogno di altro denaro che avrebbe ricavato proprio dal colpo che stavano apprestandosi a compiere.
Aspettò pazientemente e, dopo pochi minuti, vide le due donne uscire dalla casa del giudice Alassi.
Gianni depose subito il cannocchiale, e Michele mise in moto l’auto.
Maria e Anna avevano deciso di andare al mare con lo scooter, così che avrebbero fatto prima per tornare a casa.
“Come agiamo?” chiese Gianni, sfregandosi le mani.
“Per adesso lasciamole divertire, e aspettiamo il momento giusto. C’è troppo traffico e non riusciremmo a scappare in tempo.”
Gianni annuì. Le seguirono fino alle spiagge di San Marco. C’era poca gente, e le acque erano calme. La sabbia era un bollente manto dorato.
Faceva così caldo, che anche i sequestratori avvertirono il desiderio di buttarsi in acqua. Tuttavia si limitarono a posteggiare in prossimità della spiaggia, attendendo pazientemente che le due facessero ritorno a casa. In quel momento, prendere la ragazza sarebbe stato più semplice.
Intanto Davide le teneva d’occhio, e con il cannocchiale fece zoom su di loro.
Proprio allora, Maria si stava spogliando, togliendosi l’abitino di cotone e rimanendo con un bikini azzurro.
Davide rimase sorpreso, poi sbirciò la foto che gli avevano dato di Maria Alassi. Lì era magra, quasi senza seno, sembrava una ragazzina delle medie. Ma era naturale, visto e considerato che risaliva a qualche anno prima. Adesso invece, dal cannocchiale vedeva una ragazza alta, formosa, dalla vita stretta e i fianchi larghi. I suoi grandi occhi azzurri venivano messi in risalto dal costume, e la sua pelle nivea lasciava presupporre che per quell’anno non fosse mai andata al mare prima di allora. I ricci le arrivavano fino al giro vita, e aveva il sedere a mandolino: quella che vedeva non era affatto una ragazzina bensì una donna. Pensando a ciò, capì perché Gianni aveva fatto quell’apprezzamento. La ragazza che dovevano rapire era bella, come lo erano in poche.
Davide si riscoprì contento, e sorrise, continuando a scrutare Maria. Ma subito dopo il sorriso gli morì sulle labbra, quando pensò che gli sarebbe toccato tenere a bada i suoi uomini. Quella donna poteva diventare una pericolosa tentazione.
“Ragazzi non possiamo prenderla adesso, deve essere da sola, altrimenti la donna che è con lei potrebbe dare l’allarme, e noi non avremo il tempo di sfuggire ai posti di blocco della polizia.”
Gli uomini di Davide annuirono, trovandosi perfettamente d’accordo con il loro capo.
“Dai, andiamocene. Sto soffocando dal caldo!” si lamentò Davide, riponendo il cannocchiale.
Il giorno dopo, Parcheggiarono a qualche chilometro prima della scuola, sperando che Maria Alassi non avesse intenzione di marinare ancora una volta. Quello era un punto dove la ragazza passava spesso per andare a prendere la colazione al bar, un posto dove si diceva che facessero il cappuccino più buono del paese. La zona era buona perché il traffico era quasi assente, e da lì per andare “al rifugio” non erano costretti a passare per il centro.
Davide scese dall’auto: lui aveva il compito di bloccare la ragazza. Poi Michele sarebbe arrivato subito dopo con l’auto mentre a Gianni spettava il compito di aprirgli la portiera.
Si poggiò al muro, e si accese una sigaretta. Dopo solo pochi minuti di attesa, a qualche metro di distanza, si fermò lo scooter della ragazza.
Maria scese e si tolse il casco, mentre la sua attenzione venne attirata dai capelli rossi di Davide. Si accorse di non riuscire a staccare gli occhi da quel ragazzo. Era alto, e dal fascino tenebroso. Quando lui ricambiò il suo sguardo Maria entrò in fretta nel bar, imbarazzatissima.
Quando Davide l’aveva guardata negli occhi aveva provato una strana sensazione: quella ragazza lo aveva colpito particolarmente. Gli occhi di lei erano grandi, chiarissimi e dolci.
Michele, intanto, aveva messo in moto l’auto, avvicinandosi a lui. Anche Gianni era pronto, e Davide prese dalle tasche un fazzoletto imbevuto di cloroformio.
Poco dopo, Maria uscì dal bar, e si diresse verso il suo scooter, posto sul retro. Non ebbe il tempo di accorgersi di nulla, che si sentì afferrare da forti braccia. Poi, qualcosa le si posò sul viso coprendole il naso e la bocca.
Il terrore si impadronì di lei facendole accapponare la pelle. Voleva inspirare l’aria per urlare,
ma si sentiva stordita. Vide una macchina avvicinarsi a lei. Infine, La vista si offuscò, e tutto divenne nero.


Capitolo 2
Il giudice Antonino Alassi

Davide teneva sulle sue gambe la ragazza svenuta, che in quel momento indossava una minigonna di jeans, una canottiera celeste, e un foulard rosso. Da lontano aveva notato quanto la ragazza fosse bella, ma adesso, ad averla così vicina, si sentì strano: era attratto da lei. Aveva un’aria così innocente e pura da sembrare un angelo; involontariamente si ritrovò ad ammirare il suo viso: quella ragazza era di una bellezza disarmante.
Manteneva una mano sulla coscia della ragazza, per reggerla, e con piacere notò quanto fosse liscia. Infine i suoi occhi caddero sulla sua scollatura, e su quel seno formoso ma non sproporzionato; Se lei non fosse stato l’ostaggio, di sicuro l’avrebbe corteggiata fino allo sfinimento.
Quello però non era il momento di perdersi in pensieri lascivi, doveva concentrarsi e dirigere i suoi uomini. Le sollevò leggermente la maglietta, così da coprire il generoso decoltè, e le abbassò la gonna per non vedere più le sue mutandine a fiorellini rosa: Sarebbe stata dura avere un ostaggio così, pensò.
Raggiunsero una casetta in campagna nella contrada Scuncipani. Era una zona tranquilla, dove di giorno vi si avventuravano solo poche persone, contadini che lavoravano i campi. Inoltre, quella terra apparteneva a Don Carusi.
L’abitazione era fatta di mattoni, con le pareti bianche, spoglie, e con qualche finestra di legno verniciata di verde. L’interno, invece, presentava tre stanze e un bagno.
Quando Maria si svegliò, aveva un gran mal di testa, e sentiva un profumo intenso di pesca. Si sollevò a sedere, notando subito che la stanza in cui si trovava era in penombra. Era adagiata su un letto di ferro battuto, con un capezzale che raffigurava la madonna del soccorso, con il Gesù bambino in grembo e un braccio alzato, indice e medio sollevati verso l’alto come se stesse compiendo un miracolo.
Sentì il frinire dei grilli, mentre il sole filtrava attraverso le persiane di una finestra alla destra del letto.
La luce era di un colore caldo, della sfumatura del tramonto.
“Ammazza quanto dormi!” una voce maschile la fece voltare di scatto.
Di fronte a sé, ai piedi del letto, se ne stava un ragazzo, accomodato su di una sedia posizionata al contrario, tant’è che quello poggiava con il petto allo schienale, e mangiava beatamente una pesca. Era a torso nudo, e lei notò subito il suo fisico da mozzare il fiato. Ogni muscolo era perfettamente delineato, ma non voluminoso, quanto piuttosto atletico e slanciato; i pettorali che sussultavano ad ogni movimento del braccio. I capelli erano rossi, legati alla nuca, sebbene qualche ciocca ribelle gli ricadesse lungo il viso, giungendo a carezzargli il petto.
Aveva una cicatrice sulla parte bassa dell’addome, in prossimità dell’ombelico, che scendeva giù fino al pube, insinuandosi sotto i pantaloni; sembrava quasi una freccia che invitasse a guardare proprio lì in mezzo alle gambe. Ad una prima occhiata, poteva quasi apparire come il segno lasciato da un’appendicite, ma era troppo lungo, e, chissà perché, dannatamente sexy.
Maria si strofinò gli occhi: che stesse ancora sognando?
Il ragazzo, dal canto suo, si passò il dorso della mano sulle labbra e prese a guardarla dritta negli occhi. Le sue iridi erano verdi e profonde, le sue labbra, invece, rosee e carnose, mentre il naso era dritto e grazioso; aveva la mascella da uomo eppure sembrava ancora così giovane. Quel ragazzo era bello, molto più avvenente di Marco, o addirittura del suo idolo preferito, Johnny Deep!
“Hai fame?” chiese quel ragazzo, lanciandole dolcemente una pesca.
“Fra qualche ora arriverà un mio compagno che ci porterà arancine e pizzette!”
Maria afferrò la pesca tra le mani, ma si sentiva stordita. Dove si trovava e chi era quel ragazzo?
“Dove sono? E tu chi sei?”
Davide si sollevò dalla sedia, e in quel momento Maria vide la pistola che aveva legato alla cinta.
La ragazza s’irrigidì; mentre il rossino si sedeva sul letto accanto a lei.
“Dunque… per prima cosa stai tranquilla, non vogliamo farti del male.”
Maria si allontanò immediatamente dal ragazzo, tesa come una corda di violino.
“Dove ti trovi non posso dirtelo, ma, se ti comporti bene, per te sarà come una vacanza!” continuò lui, impassibile.
Poi, Davide si allontanò, prese un giornale dal comodino, lo aprì e lo porse alla ragazza.
“Fammi un favore, tienilo così davanti al petto.” disse.
Infine, da uno dei cassetti del settimino posto di fronte al letto, prese una macchina fotografica a sviluppo istantaneo. Si avvicinò di nuovo alla ragazza e disse: “Ah! Sposta il dito, non si legge la data.”, e con il mignolo le spostò l’indice.
Poi si allontanò, e come se nulla fosse le scattò una foto.
Da come si comportava, a Maria sembrò quasi un medico, impegnato a dare precise direttive alla sua paziente sotto esami.
In quel momento intuì di aver capito qualcosa, ma non riusciva ancora a credere che fosse vero.
Davide afferrò il foglietto che era uscito dalla macchinetta fotografica e cominciò ad agitarlo affinché si asciugasse. Poi si agguantò il mento e prese ad analizzare con cura la foto.
“Mh, direi che può andare… la tua espressione è abbastanza idiota!”
-Che cosa?- pensò la ragazza, irritandosi.
“Senti… vuoi dirmi chi sei, e che diavolo ci faccio qui, sì o no?!” sbraitò subito dopo, completamente spazientita.
“Ma come?! Non lo hai ancora capito?”.
Maria deglutì; aveva pensato giusto allora!
“Se è uno scherzo non è affatto divertente!” sbottò.
Maria ingoiò a vuoto di nuovo, visto che l’espressione di quel ragazzo era rimasta seria. In quel momento, ricordò come un flash quello che le era capitato quella mattina: il cappuccino, la macchina, e infine il ragazzo che fumava.
“Non è uno scherzo… sei stata rapita, e ti conviene collaborare con noi!” disse Davide, lanciandole uno sguardo intenso, che le fece capire che non stava scherzando.

Intanto, nel tribunale di Sciacca, Giusy correva nei corridoi dell’imponente edificio, cercando di schiarirsi le idee. Aveva lasciato la porta del suo ufficio aperta, con la cornetta del telefono poggiata sulla scrivania di mogano, in attesa. Giusy era una donna di circa quarantacinque anni; indossava un elegante completo nero, in cotone e seta, composto dalla giacca e dalla gonna, che le arrivava al ginocchio. Camminava a passo svelto, cercando di non scivolare per via dei tacchi alti che aveva ai piedi. Arrivò di fronte ad una porta di legno scuro, alta quasi tre metri. Si sistemò meglio la forcina che aveva tra i capelli marroni e bussò, per poi entrare.
Ad aprirle, era stato il carabiniere posto a sorveglianza dell’ingresso.
“Salve signorina Giusy, come posso aiutarla?” chiese cordialmente l’uomo, con un gran sorriso stampato in faccia. Era alto, dai capelli neri e due grandi occhi marroni.
Dalla sala, intanto, si sentiva l’eco della voce dell’avvocato che, mentre faceva la propria arringa, aumentava veementemente di volume ad ogni frase importante.
Proprio di fronte all’uomo di legge, stava seduto il giudice Alassi, un uomo alto, dai grandi occhi azzurri e dai capelli brizzolati; aveva un viso che ispirava rispetto, forse per lo sguardo fiero e solenne.
“Devo assolutamente parlare con il signor Alassi, è urgente!” disse Giusy, visibilmente preoccupata.
“Ma signorina, siamo nel bel mezzo di un caso importante!” obbiettò il carabiniere, confuso.
Non vedendo altre alternative per convincere l’uomo, Giusy afferrò la mano del carabiniere, che a quel contatto inaspettato arrossì vistosamente; si sentiva una delinquente ma quella era l’unica maniera, se sperava di persuaderlo. Già da un po’, sapeva che quel buon uomo aveva un debole per lei, e più di una volta era stata invitata da lui per trascorrere una serata assieme, facendogli per lo più collezionare un rifiuto dopo l’altro. Non che quell’affascinante carabiniere non le piacesse, ma per un po’ di tempo voleva pensare solo a se stessa, visto e considerato che era appena uscita da una storia d’amore finita male. Avrebbe dovuto sposarsi, dopo ben dieci anni di fidanzamento, ma all’ultimo minuto il suo ormai ex compagno si era tirato indietro, provocando la rottura definitiva del loro rapporto.
Adesso voleva pensare solo alla sua carriera, puntando anche a qualcosa di più del suo attuale ruolo di segretaria, sebbene fosse alle dipendenza del giudice più importante di Sciacca.
Accantonando quei pensieri, Giusy puntò gli occhi marroni in quelli del carabiniere “La prego, mi lasci andare! Mi faccia questo favore e stasera per sdebitarmi uscirò con lei!”
Il carabiniere, riempito di nuovo entusiasmo, afferrò entrambe le mani della donna tra le sue.
“Dice davvero?”
Giusy sospirò: ormai aveva fatto il guaio.
“Sì, davvero!” confermò, ma se ne pentì subito dopo: già se le vedeva quelle pettegole delle vicine, mentre le facevano un milione di domande, insinuando chissà cosa sul carabiniere e su di lei.
L’uomo innamorato la lasciò passare, consentendole di attraversare la sala e di risalire la rampa che le permise di raggiungere il banco del giudice.
Quando Antonio Alassi scorse la sua figura venirgli incontro indurì l’espressione, lasciando presagire cosa avesse da dirle, o, più semplicemente, quello che avrebbe tanto voluto domandarle, non dovendo controllare né la rabbia, né il tono di voce; ma l’unica cosa che fece, fu appuntare immediatamente gli occhi verso i carabinieri di guardia, come a volerli fulminare con lo sguardo per non aver svolto a dovere il proprio compito.
Cosa diavolo era saltato in mente alla sua segretaria? Quello a cui stava assistendo era un caso difficile, perché il ragazzo in questione era accusato di omicidio, ma si dichiarava innocente. Inoltre, tutti gli abitanti del paese sapevano che il giovane era parente di Don Carusi.
Antonio interruppe l’avvocato che stava parlando con un cenno della mano.
Giusy si accostò all’orecchio del giudice, bisbigliando qualcosa che egli non capì subito.
“Mi perdoni, ma deve assolutamente venire in ufficio. Si tratta di vita o di morte!”
Quando la segretaria finì di pronunciare quella frase, il giudice vide il ragazzo sotto accusa rivolgergli un sorriso ambiguo, pieno di soddisfazione: un vero e proprio ghigno. Antonio avvertì dei brividi gelati percorrergli la schiena, e decise di dare ascolto alla sua segretaria; d’altronde, Giusy non era totalmente incosciente e non si sarebbe mai sognata di interromperlo in un momento così importante, se non ne avesse avuto un valido motivo.
Il giudice sbatté il martello e annunciò una pausa di cinque minuti.
“Stai tranquillo, Stefano, vedrai che andrà tutto bene.” disse l’avvocato difensore, dando delle pacche d’incoraggiamento sulle spalle dell’ imputato.
“Sì!” rispose il ragazzo, e lo pronunciò con una tale sicurezza da escludere qualsiasi altra eventualità, mentre con gli occhi continuava a seguire la figura del giudice che si allontanava dall’aula. Ancora una volta, Antonio provò un brivido; e in quel momento, alla luce del ghigno spavaldo che continuava ad ostentare sul viso, il ragazzo moro gli apparve quasi come il diavolo in persona.
“Che accidenti è successo?” sbraitò subito dopo, camminando in fretta lungo il corridoio.
Giusy, che di statura era molto più bassa di lui, fu costretta a correre per seguirne il passo.
“Mi perdoni, ma mi hanno telefonato, minacciandomi che sarebbe successa una cosa davvero spiacevole se non l’avessi chiamata!”
Tutta quella faccenda non prometteva niente di buono, considerò Antonio, e una paura folle gli fece accelerare la corsa verso il suo ufficio. Con particolare impeto afferrò la cornetta che attendeva sulla scrivania, preoccupato, confuso e arrabbiato. “Pronto!” esclamò.
“Signor giudice, come va la famghia?” disse una voce maschile con un forte accento siciliano.
“Con chi parlo?” fu la risposta di Antonio.
“Mi rissero che ossia un vosi collaborare con le buone, e così sono dovuto passare alle maniere forti.” (mi hanno detto che lei non ha voluto…)
“Ma chi è lei? Cosa vuole?” chiese esasperato Antonio.
“Abbiamo preso vostra fighia e se lei non vuole collaborare, dovrò fare qualcosa di molto, molto brutto. Ed è un peccato, picchi a vostra fighia è un gran pezzu di sticchiu!” (ed è un peccato perché sua figlia è un gran pezzo di figa!)
Il giudice cominciò a ridere, vittima del nervosismo.
“Se è uno scherzo non è affatto divertente! Come si permette? Mi ha disturbato durante un caso importante!”
“Ah, così non mi crede, eh?” disse la voce. Dopo qualche secondo sentì la voce di sua figlia, chiara e squillante. “Papà! Ho paura, aiutami!” strillò.
“Se ossia un ci chiri, taliassi nella posta, c’è na busta pi ossia!”(se lei non ci crede, guardi nella posta, c’è una busta per lei) disse la voce; poi riattaccò.
“Pronto?! Pronto?!” sbraitò Antonio, cominciando a sudare freddo. Non avrebbe mai dovuto accettare quel caso, pensò, visto che aveva sentito da subito la puzza di guai, soprattutto quando avevano tentato di corromperlo. Aveva rifiutato, indignandosi, e quelli non si erano più fatti sentire; aveva creduto che la storia fosse finita lì, ma a quanto pare si era sbagliato di grosso. Cominciò a cercare tra la posta, nervosamente, e poco dopo vi trovò una busta su cui spiccava la scritta: “Urgente per il giudice Alassi”. era stata scritta al PC, e in allegato conteneva la foto di sua figlia; in mano aveva un giornale datato quel giorno stesso. La lettera recitava così:
“Gentilissimo Antonio Alassi, rinvii il processo del signorino Stefano Carusi a data da destinarsi, e segua le istruzioni che le daremo per scagionarlo. Se così non dovesse avvenire, ciò che riceverete la prossima volta sarà un pacco contenente vostra figlia fatta a pezzi. Niente polizia; al minimo movimento sospetto faremo fuori la ragazza.
Giorno per giorno le invieremo una lettera con precise direttive. Se collaborerà con noi senza sgarri, riavrà la ragazza sana e salva; in caso contrario, dovrà preparare una bella bara.”
Giusy osservò impotente il povero giudice, ora bianco come un cencio; l’uomo aveva paura e le mani gli tremavano vistosamente, sebbene stringesse con forza il foglio maledetto che lo aveva messo con le spalle al muro. Poi, Antonio gettò a terra la lettera e si lasciò cadere pesantemente sulla poltrona, nascondendo il viso tra le mani.
Giusy raccolse il foglio e lo lesse. Rimase scioccata, e si sentì come catapultata in un film di gangster. Non sapeva cosa dire, e posò le mani sulle spalle dell’uomo, con fare consolatorio.
In quel momento Antonio si alzò in piedi; dall’espressione del suo viso sembrava invecchiato di colpo.
“Devo andare!” disse, e si avviò verso la porta; ma prima di richiudersela alle spalle, tornò a voltarsi indietro “La prego di non fare parola dell’accaduto con nessuno, nemmeno con mia moglie. “Devo essere io a dirglielo.”
Giusy annuì. “stia tranquillo!”
Mentre camminava lentamente, vittima di un improvviso malore, il signor Alassi continuava a chiedersi come diamine avessero fatto i sequestratori a portare la lettera fin nel suo ufficio. Per scoprirlo avrebbe dovuto parlare con il portinaio che si occupava dello smistamento della posta; ma, per prima cosa, doveva trovare una buona scusa per rinviare il processo.
Antonio si allentò la cravatta, surriscaldato, ormai succube della tensione; poi, si concesse un sorriso amaro, ripensando ai suoi sogni di gioventù. Da sempre aveva sognato un mondo senza corruzione, ed egli stesso si era sempre ripromesso, lo aveva giurato, che non si sarebbe mai lasciato contaminare dal denaro, applicando la legge in maniera equa per tutti.
Che sciocco che era stato: al mondo non esisteva niente di puro e immacolato; E alla fine, anche lui aveva dovuto chinare il capo di fronte al crimine, accettare quello sporco ricatto, farsi corrompere come il più miserevole dei disonesti. Ma lo aveva fatto per salvare il suo più grande tesoro, sua figlia. All’improvviso si sentì in colpa, mentre ripensava a tutte quelle volte in cui Maria aveva chiesto di uscire assieme, magari per comprare un vestito, o per mangiare un gelato. Aveva lasciato che il lavoro lo assorbisse completamente, e aveva cercato di colmare la sua assenza facendo a Maria regali su regali; eppure, notava come la ragazza li ammucchiasse nella sua stanzetta, senza degnarli di uno sguardo.
In quel momento si sentì gelare il sangue nelle vene, ripensando alla frase disgustosa che gli avevano riferito al telefono: “Ed è un peccato picchi a vostra fighia è un gran pezzu di sticchiu.” Solo in quel momento sembrò realizzare quanto Maria fosse cresciuta: era diventata una donna, ormai. Una gran rabbia gli fece serrare la mascella, mentre pregava Dio che non succedesse niente alla sua bambina.
 
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view post Posted on 12/9/2010, 21:28
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Capitolo 3
Voglia di agire



Maria si guardò le mani, ancora serrate sulla pesca; il frutto era peloso e giallo, ed aveva un buon profumo.
Davide rimase fermo, seduto accanto a lei; poi le passò una mano sulle spalle, con fare consolatorio.
“Non preoccuparti, finché ci sarò io non ti torceranno un capello, promesso.”
Maria si scostò delicatamente da lui, non voleva essere toccata. Sorrise e morse la pesca.
Aveva sempre desiderato che succedesse qualcosa del genere, che la rapissero così che suo padre sarebbe stato costretto a preoccuparsi per lei. Ora non avrebbe più potuto dire: “magari dopo tesoro.” oppure “in questo momento ho da fare”. adesso sarebbe stato costretto a sollevare lo sguardo da quelle maledette carte, a togliersi quegli orribili occhialini, e occuparsi di lei.
“devo andare in bagno.” disse, poggiando l’osso della pesca sul comodino.
Davide sorrise soddisfatto: quella ragazza era intelligente, ed aveva capito che abbandonandosi ad inutili sceneggiate, sarebbero stati costretti a prendere seri provvedimenti.
Così il ragazzo prese a mostrarle la casa, quasi fosse un agente immobiliare.
“Qui c’è la cucina; non è un granché, ma basta e avanza per poter preparare un piatto di pasta al sugo!” disse il ragazzo, mostrandole i fornelli posizionati sopra una lastra di marmo incastonata nel muro, sotto la quale c’era la bombola del gas.
La stanza era ampia, e al centro c’era un tavolo in legno coperto da una tovaglia colorata di lattice.
Poi, il rosso portò Maria verso l’imboccatura di un corridoio. “Laggiù c’è la nostra stanza, ma non credo che ti interessi vedere calzini puzzolenti o mutande sparse qua e là.” Detto ciò Le sorrise cordialmente, e lei ne rimase incantata: aveva l’aria di un bambino dispettoso, e i suoi denti erano bianchi e perfetti.
Maria però non lo diede a vedere, rimanendo seria tutto il tempo. Si sentiva stordita, come se stesse vivendo un sogno, il più bizzarro mai fatto.
Quando entrò nel bagno si sorprese: la finestra era sbarrata da una spessa lastra di metallo con dei fori piccolissimi per far filtrare l’aria. Provò a sbirciare attraverso i buchi, ma riuscì a vedere solo una porzione di terreno e un albero poco distante.
Il bagno non puzzava, ed oltre ad essere lindo e pinto era perfettamente in ordine. Non c’erano oggetti gettati alla rinfusa, soltanto qualche saponetta profumata; da ciò capì che i suoi rapitori la stavano trattando con i guanti bianchi.
Ancora non riusciva a capacitarsi di quello che era successo: l’avevano rapita, e la cosa che la sconcertava di più restava il fatto di esserne quasi felice. Realizzò che forse ciò dipendeva dal fatto che in quella maniera avrebbe potuto staccare un po’dalla sua realtà, sparire dalla circolazione senza dover dare spiegazioni, e senza sentirsi in colpa. Decise quindi di dare ascolto a quel ragazzo e di prendere il sequestro come una vacanza. Senza contare che il rapitore dai capelli rossi era talmente tanto sexy che averlo attorno era semplicemente un piacere per gli occhi. E per fortuna era anche simpatico! Sì, decise, per il momento avrebbe collaborato, a dispetto di quella stronza di Siria e dei suoi familiari, che tante volte non le avevano prestato la minima attenzione; e chissà, forse, quando e se sarebbe riuscita a tornare a casa, tutti l’avrebbero ricoperta di premure e gentilezze. Da quel punto di vista, quella situazione non le sembrava poi così male.

Quella sera gli uomini di Davide non giunsero mai con arancine e pizzette; per questo furono costretti a cenare con un semplice piatto di pasta in bianco. Quando poi Maria andò a letto, venne rinchiusa nella sua stanza, ma nonostante tutto non vi badò, addormentandosi senza troppi indugi.
La mattina presto fu svegliata bruscamente dal volume esageratamente alto della radio, che trasmetteva della musica Jazz piuttosto allegra. In principio aveva pensato di ignorarla e di continuare a poltrire, ma alla melodia andò presto ad aggiungersi il fischiettio di uno dei suoi rapitori, che, a giudicare dal tono e dalla provenienza, stava progressivamente avvicinandosi in direzione della sua stanza. Così decise di arrendersi e si sollevò a sedere sul letto, cuore in gola.
La porta si spalancò, e con suo grande sollievo, ad entrare fu Davide, che posò su una sedia degli abiti freschi e puliti.
Tra di essi, c’era anche una pila di mutande da uomo piuttosto piccole.
“Ehilà!” bofonchiò il ragazzo, togliendosi la sigaretta dalle labbra.
“Dovrai accontentarti di questa roba per i ricambi.”
Davide spense la sua sigaretta nel posacenere poggiato sul settimino, dopodiché si accomodò sul letto senza aspettare che la ragazza si alzasse o che si mettesse in ordine.
Prese il telefonino dalla tasca, ma prima di fare alcunché si soffermo a guardarla seriamente; e in quel momento realizzò che nonostante i capelli ancora arruffati, la ragazza non aveva perso nulla del suo fascino, ma anzi, quell’aria assonnata gli piaceva particolarmente, rendendola ai suoi occhi particolarmente tenera.
Dal canto suo, Maria non riusciva a restare del tutto impassibile al ragazzo che aveva di fronte, visto e considerato che la canottiera bianca che indossava, gli evidenziava il fisico abbronzato e allenato. Provò una strana sensazione nel guardarlo, una sensazione completamente diversa da quella che ogni volta che incontrava Marco la faceva arrossire e balbettare. Uno strano desiderio si era impossessato di lei, un’irrefrenabile voglia di mordere ogni muscolo del suo corpo, soprattutto quelli dell’addome scolpito, così sodo da assomigliare al guscio di una tartaruga.
“Che diavolo mi succede?” pensò Maria sconcertata. Non era da lei avere simili pulsioni o pensieri lascivi.
“Ascolta…” disse il giovane, distogliendola da quei pensieri “ E’arrivato il momento di collaborare. Devi fare una cosa semplicissima… quando ti darò il via, tu dovrai dire “papà ho paura aiutami!” capito?”
In principio Maria sgranò gli occhi, confusa e sorpresa dalla richiesta. Pensò di rifiutare, ma poi considerò che non fosse una mossa prudente. Infine annuì titubante.
Davide digitò un numero e si portò la cornetta all’orecchio.
“Mi raccomando, devi sembrare spaventata. Fai finta di piangere!” spiegò.
Subito dopo, Davide aprì la conversazione camuffando la propria voce e usando un forte accento siciliano.
Il ragazzo non perse tempo, fornendo tutte le istruzioni al signor Alassi, per poi concludere la comunicazione con il toccante intervento di Maria.
“Wow, sei una brava attrice!” osservò poi, stupito, il cellulare ancora in mano; poi lo spense e buttò via la scheda telefonica.
“Anche tu non sei male!” rispose Maria, rimasta senza parole per quell’impeccabile interpretazione. Un attimo prima, Davide sembrava un ragazzo ben educato e di buona famiglia, e l’istante successivo, al telefono, si era trasformato in un volgare delinquente. Non c’era altro da dire: sapeva farci, era un vero professionista, ed era evidente.
Poco dopo si sentì lo sbattere della porta che si richiudeva, e il concitato parlottare di più individui.
“Ehi cerino! ho portato la colazione!” urlò Gianni dalla cucina.
Davide sbuffò e si alzò dal letto, aveva sperato di poter stare ancora qualche ora da solo con la ragazza, ma non se ne sarebbe parlato.
“Senti, Mastro Lindo, l’hai portata la TV?” chiese quando si affacciò oltre l’uscio della stanza.
Maria non impiegò molto a collegare la parola “cerino” alla chioma rossa di Davide, dopodiché un uomo completamente calvo fece il suo ingresso nella stanza, porgendo al compagno una fragrante brioche.
“Non l’hai portata?” continuò imperterrito il rossino.
Gianni fece spallucce, indifferente.
Dal canto suo, Davide posò la mano sulla testa dell’uomo e cominciò a scrutarla, con espressione concentrata.
“Ehm… che stai facendo?!” chiese alquanto perplesso l’altro.
“Guardo i tuoi superpoteri!”
“Superpoteri?” chiese Gianni, ancora più confuso.
“I capelli invisibili.”rispose Davide dandogli una pacca sulla pelata.
“Idiota, vai a prendere la tv. Ci serve per le notizie mica per passare il tempo!” sbraitò dopo averlo guardato a lungo negli occhi, cupo.
In quel momento, Maria scoppiò a ridere, chiedendosi innanzi tutto se quei due fossero davvero dei rapitori; quei sopranomi poi, Cerino e Mastro Lindo, non solo erano proprio azzeccati, data la testa rossa di Davide e la pelata di Gianni che ricordava appunto il personaggio del prodotto per i pavimenti, ma soprattutto erano inverosimilmente spassosi per una nella sua situazione.
I due uomini, sorpresi, si voltarono a guardare la ragazza che se la rideva di gusto.
“Ehi, sei sicuro che quella non è una tua amica!?” chiese Gianni completamente incredulo per l’atteggiamento della ragazza. Qualsiasi ostaggio sano di mente, sarebbe stato terrorizzato da quella situazione, o almeno avrebbe tentato la fuga ad ogni momento favorevole; quella ragazza invece, sembrava quasi essere a suo completo agio, come se quella fosse una farsa, uno scherzo.
“L’ho portata io la TV!” irruppe una terza voce, quella di Michele, che raggiunse anche Maria.
“Ah, se non ci fossi tu saremmo persi!” disse Davide, ficcandosi tra le labbra la brioche e sparendo oltre l’uscio della stanza.
Gianni rimase qualche istante ancora ad osservare la ragazza, calandosi i suoi occhiali da sole per vederla meglio. Maria si coprì istintivamente con il lenzuolo, vittima dei brividi, avvertendo il pericolo in agguato: lo sguardo lascivo di quell’uomo, che indugiava lentamente sulle forme del suo corpo, non lasciava spazio a dubbi.
“Gianni!” la voce imperiosa di Davide fece scattare sull’attenti il diretto interessato, che sbuffò e si allontanò per raggiungere i suoi complici in cucina.


“Se è uno scherzo non è affatto divertente!” sbottò Rosa, una donna alta e magra, con dei morbidi capelli del colore del grano che le ricadevano mossi sulle spalle. Aveva quarant’anni, ma era ancora una gran bella donna. Maria aveva preso da lei i lineamenti del viso, mentre il colore degli occhi e dei capelli lo aveva ereditato dal padre.
Rosa rimase immobile per un lungo attimo, con il fiato sospeso, ad osservare il volto tirato del marito, la bocca socchiusa nell’incertezza, e la fronte aggrottata per l’apprensione; fino all’ultimo, sperò che l’uomo si alzasse dalla poltrona e dicesse che in effetti era uno scherzo.
Ma Antonio abbassò lo sguardo incupendosi maggiormente. “Ti sembro uno che scherza su certe cose?” domandò.
Il viso di Rosa, da semi catatonico che era, assunse un’espressione disperata; poi cominciò a camminare avanti e indietro, nervosamente. Da parte sua, Antonio poggiava con i gomiti sulle ginocchia, mentre con entrambe le mani si reggeva il capo, pensieroso. Il giudice non poteva neanche immaginare quanto il suo ostinato silenzio gravasse sulla sua consorte, che a breve si sentì mancare il respiro, la testa che le vorticava vertiginosamente.
“La mia bambina… l-la mia…” biascicò la donna con voce tremante.
Antonio sollevò lo sguardo sulla moglie che si fermò al centro della stanza, poggiando una mano alla testa, e l’altra allo stomaco; il volto della donna pallido come quello di una statua di cera.
Il giudice intese subito la situazione e si sollevò di scatto per sostenere la sua consorte, ormai prossima a svenire.
“Tesoro, ti senti bene?” chiese premuroso, aiutandola a poggiarsi sul divano in pelle nera del salotto. Antonio afferrò prontamente una cartolina e cercò di farle aria. Poi corse a prenderle un bicchiere d’acqua che Rosa bevve svogliatamente.
“Tesoro, come ti senti?” chiese ancora.
La moglie sembrò riprendersi del tutto perché cominciò ad urlare.
“Secondo te come dovrei sentirmi, eh?! La mia bambina è chissà dove, in mezzo a degli zulù primitivi, e mio marito viene ricattato dai mafiosi! Allora? Che ne dici? Ma vaffanculo va!”
Antonio rimase a bocca aperta, completamente attonito: era raro sentire sua moglie dire qualche parolaccia.
Dopo un lungo silenzio, Rosa respirò a fondo e riprese: “Hanno chiesto un riscatto? Quanto vogliono?”
“Non vogliono denaro!”
“che cosa?!”
Antonio prese a massaggiarsi le tempie, sfinito, ed in quel momento Rosa notò quanto tremassero le sue mani.
Improvvisamente si sentì in colpa per l’essersi lasciata andare a quel modo, alzando la voce.
“Vogliono che scagioni Stefano Carusi, il ragazzo accusato di omicidio.”
A quelle parole, Rosa si irrigidì, sentendosi impotente e piccolina rispetto ad un semplice nome.
“E allora fallo!”
“Non è così semplice!” ribatté Antonio.
“Cosa facciamo?” chiese allora Rosa, abbassando il tono di voce e stringendosi le braccia attorno al corpo, svilita.
Antonio prese ad accarezzare le spalle esili della moglie per rassicurarla; infine l’abbracciò teneramente.
“Non preoccuparti, andrà tutto bene.”

Nello stesso momento Anna, la cameriera, si era appiattita contro la parete del corridoio, sconvolta. Per puro caso aveva sentito tutta la conversazione tra i coniugi Alassi, ed ora il cuore le si era fermato per lo shock.
Maria, la piccola e dolce Maria era stata rapita, e si trovava in pericolo. Non poteva starsene con le mani in mano, doveva fare qualcosa.
Con grande coraggio, e ferrea determinazione, prese una decisione: se la polizia non poteva essere coinvolta, allora avrebbe indagato lei, in un modo o nell’altro.
L’indomani, come tutti i giorni, Anna preparò la colazione ai due coniugi, e aspettò con pazienza che uscissero entrambi per andare a lavorare. Non appena sentì la porta chiudersi, si slacciò velocemente il grembiule bianco e, come la più abile delle spie, senza farsi notare, prese l’auto che si era fatta prestare per l’occasione. Seguì il giudice, tenendosi a distanza, e si parcheggiò in modo tale da avere una buona visuale dell’ingresso del tribunale, così da poter scorgere l’arrivo di persone sospette. Da quello che aveva capito, ascoltando di nascosto le parole del giudice, giorno per giorno qualcuno provvedeva a recapitargli delle lettere contenenti istruzioni. Non le avevano ancora detto nulla sulla situazione, e quando aveva chiesto notizie di Maria, le avevano mentito, dicendole che per un paio di giorni sarebbe stata dalla nonna paterna, a Ribera, un paese vicino Sciacca. I pensieri di Anna vennero bruscamente interrotti da un furgone di rifornimenti, che parcheggiò proprio d’avanti alla sua auto, impedendole così di tenere sotto controllo l’ingresso.
“Ma porca…” imprecò, nervosa e frustrata. Così, con movimenti bruschi, scese dalla macchina. Tuttavia non poteva certo controllare la zona standosene lì impalata in mezzo alla strada. Come poteva fare? Poi, guardandosi attorno vide l’insegna di un bar: C’era scritto “al solito posto!”. Sfoderò un’espressione perplessa, pensando sarcasticamente: -che fantasia-. Nonostante tutto, considerò che il posto era perfetto per fare qualche domanda senza dare nell’occhio; d’altronde i proprietari e i clienti potevano aver notato qualcosa, ed una donna che faceva domande non era poi una rarità. Ringraziò il cielo per il fatto che Sciacca fosse un paese piccolo e pieno di pettegole.



“Accendila c’è il tg!” ordinò Davide, indicando la tv. Michele pigiò il tasto e si sintonizzò sul canale regionale.
Era mattino, avevano finito di fare colazione, ed ora stavano tutti in cucina davanti alla televisione. Tutti meno una, a dir la verità. Davide controllò con la coda dell’occhio il bagno dove la ragazza si stava facendo la doccia. Sperò che il telegiornale distraesse lui e i suoi uomini dalle fantasie erotiche che quella donna poteva scatenare. Se lui faceva fatica a trattenersi, non osava immaginare cosa passasse per la testa dei suoi complici. Tra l’altro Non gli era mai capitato di sbavare dietro ad una ragazza. Di solito era il contrario, gli bastava fare qualche battuta, un sorriso, e tutte gli cadevano ai piedi. La porta del bagno si aprì proprio mentre alla tv davano le prime notizie di cronaca e di politica, e la casa fu inondata dal profumo di bagnoschiuma e balsamo. Rapidamente, Maria andò ad accomodarsi timidamente al tavolo, accanto a Davide: non sapeva spiegarsene il motivo, ma gli altri due non le davano fiducia, anzi, li temeva.
Davide deglutì a vuoto, per via della troppa vicinanza con la ragazza. Maria indossava ora abiti maschili, una canottiera nera, ed un pantalone sportivo, con delle righe bianche ai lati.
-Minchia! le ho dato roba maschile per renderla meno appetibile, e invece questa qui è diventata ancora più sexy!! Aaahh sento che impazzirò, prima che tutta questa storia finisca!-
“E adesso passiamo la linea al caso Carusi, in diretta dal tribunale.” disse la giornalista alla TV.
Partì il servizio, la macchina da presa che si spostava, facendo una panoramica sui banchi dell’accusa e della difesa; infine l’inquadratura si appuntò sul giudice che presenziava al processo, e Maria sentì il proprio cuore fremere.
Il volto di Suo padre mostrava occhiaie profonde, e i suoi occhi guizzavano freneticamente da una parte all’altra della sala; la sua preoccupazione era fin troppo evidente. Si sentì improvvisamente un mostro. Lei era lì, tra quei rapitori, cercando di convincersi di essere ad uno *schiticchio tra amici, mentre suo padre sembrava consumato dall’apprensione. E dire che l’aveva anche desiderato! Aveva sperato di vedere i propri familiari in pena per lei, finalmente consci del suo effettivo valore, così da non lasciarla mai più sola, abbandonata a se stessa. Tuttavia, pensando anche al volto di sua madre, e a quello di Anna, spaventate, probabilmente in lacrime, avvertì pressante il desiderio di fare qualcosa, di scappare via da lì, e di dire loro che era tutto a posto, che lei stava bene.
<i>- Se continuo a fingere che non me ne importi nulla, forse riuscirò a fargli abbassare la guardia… in questo modo avrò più possibilità di filarmela.” <i>


Continua…..



* dunque qui devo spiegare cos’è uno schiticchio. È praticamente una rimpatriata, dove un gruppo di amici si organizzano per una sorta di festa, spesso e volentieri si ci organizza in case di campagna, dove si può far baldoria.
Si fa la spesa in comune e si sta insieme arrostendo della carne o del pesce, o magari cucinando delle pizze. Lo schiticchio inizia la mattina sul tardi per pranzare tutti assieme, si gioca e si scherza, poi la sera dopo la cena si spengono le luci e si mette musica (la musica di solito la usano i più giovani).
 
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view post Posted on 19/9/2010, 22:20
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Capitolo 4
Prova di fuga



Anna ordinò un cappuccino e si sedette al tavolino più vicino alla porta, in modo che potesse guardare attraverso i vetri. La situazione sembrava normale, la maggior parte della gente che entrava al tribunale non aveva nulla di sospetto. Strinse forte il cucchiaino che aveva in mano per il nervosismo: così facendo non arrivava a nulla. Doveva agire in qualche altro modo. Mentre sorseggiava il suo cappuccino, notò entrare un uomo alto dai capelli corti neri; gli occhi azzurri come il cielo, vestito per bene. Passò accanto a lei e le sorrise. Ad Anna mancò un battito; quell’uomo aveva una fila di denti bianchi e perfetti. Arrossì leggermente: quel uomo era davvero affascinante. Aveva una borsa di pelle nera, ne dedusse che doveva essere un avvocato.
- wow, come ha fatto a sfuggirmi una tale meraviglia della natura? - Anna scrollò la testa per scacciare via quei pensieri lascivi, doveva concentrarsi sul ritrovamento di Maria.
“Buongiorno signor. Bono!” disse il barista cordialmente con un sorriso a 32 denti.
- Però… di nome e di fatto! - pensò Anna sorridendo sotto i baffi.
“Come va quella storia lì? Del signorino Carusi?” chiese il barista curioso: un ragazzo di soli 20 anni che aveva preferito lavorare piuttosto che studiare.
“Beh in parole povere è tutto in stand by!” rispose l’avvocato agitando una bustina di zucchero tra le dita.
“Ah, la giustizia italiana è sempre così!” commentò il barista.
“Pensa che hanno fatto entrare le telecamere e i giornalisti per seguire il caso. È una faccenda delicata: il ragazzo ribadisce di essere innocente, ma l’accusa dice di avere le prove..” l’avvocato avvenente si guardò un attimo in giro e poi si avvicinò al bancone facendo segno al barista di avvicinarsi, poi continuò a parlare a bassa voce “dicono che qualcuno abbia sabotato le prove e che non sono più regolari!”
Anna un po’ tendendo l’orecchio e un po’ seguendo il movimento delle labbra intuì ciò che aveva detto. Quel uomo sembrava saperne qualcosa, Anna allora decise di seguire più da vicino la discussione e fece finta di andare al banco per pagare.
“Buongiorno!” la voce dell’avvocato la fece sobbalzare.
“Ha un viso famigliare, per caso ci siamo conosciuti da qualche parte?” chiese l’avvocato mostrando il suo sorriso più accattivante.
- Se ti avessi conosciuto, sta sicuro che non ti avrei fatto scappare - lo pensò ma non lo disse.
“No, credo di no! Comunque mi chiamo Anna!” disse lei allungandogli la mano.
“Io sono Mario!” l’uomo strinse la mano alla donna con delicatezza.
“Posso offrirle un caffé?” chiese ancora e Anna non credeva alle sue orecchie, aveva preso due piccioni con una fava.
“Oh grazie, lo accetto volentieri!”
Si sedettero al tavolino di prima, meglio di così non poteva andare.
“Ho sentito poco fa che parlava di quel caso del signorino Carusi!” iniziò Anna.
“Sì, è un caso molto difficile, non invidio per niente il giudice Alassi. Non è facile prendere una decisione, soprattutto perché… detto fra noi, il signorino ha la fama di essere un parente del mafioso del paese!”
Ecco dove aveva sentito quel nome. Si maledì per non essere una pettegola e impicciona come le sue coetanee. Lei odiava sparlare della gente, spesso quando cominciavano a sparlare di qualcuno venivano fuori un sacco di nomi che lei onestamente non conosceva. E anche se li conosceva non gliene importava niente. Pensava che ognuno era libero di vivere come gli pareva e piaceva, l’importante era che non dava fastidio al prossimo.
“Eh sì, non lo invidio per niente! Dica è di Sciacca?” chiese l’uomo.
“Sì, anche lei?”
“Sì, è strano che non abbia conosciuto una bella donna come lei prima d’ora, eppure non è molto grande questo paese!”
“Già” si limitò a dire Anna, stava cominciando ad annoiarsi. Doveva trovare un modo per far spiattellare tutto quello che questo avvocato poteva sapere, ma come? Provò con qualche domanda.
“Senta, ma al caso di quel ragazzo, è concesso a tutti entrare in aula?”
“No, certo che no, solo agli autorizzati.”
“Senta io non l’ho mai vista da queste parti, aveva un appuntamento al tribunale?” chiese subito dopo Mario.
Nella testa di Anna si accese una lampadina, -ma certo perché non andare direttamente lì a fare qualche domanda?- si alzò in piedi.
“La ringrazio Mario per il caffé ma è arrivato il momento per il mio appuntamento!”
“Aspetti signorina, posso accompagnarla io dentro, conosco quasi tutti gli uffici!”
-Merda!- esclamò mentalmente, non doveva portarsi dietro quel bel imbusto, voleva riempire di domande il portinaio. Che poteva fare?
“Ma no, si figuri ormai so dove si trova, magari ci vediamo qui qualche altra volta. Arrivederci Mario è stato un piacere conoscerla!”
Uscì in tutta fretta, e a Mario non piacque la velocità con cui si congedò la donna. Era sospetta e poi non gli aveva lasciato il numero di telefono.
Anna aveva sentito dire dal giudice che gli era arrivata una lettere fin dentro l’ufficio, le cose erano due, o avevano pagato qualcuno se non addirittura il portiere per portare la lettera, o erano entrati con disinvoltura fin dentro l’ufficio.
Provò a fare la finta tonta e ignorò il portiere entrando come se fosse un avvocato.
“Scusi signorina, dove deve andare?” chiese il portiere, un uomo di mezza età con i capelli brizzolati il naso con una grossa gobba, e occhi piccoli come quelli di un roditore. Se prima incontrò la bellezza in persona questo qui era la personificazione della bruttezza.
“Salve, avevo un appuntamento, ma è ancora presto.” Fece una pausa.
“Le dispiace se resto un po’ qui mentre aspetto il mio turno?”
L’uomo la squadrò perplesso poi fece un cenno con la mano mostrandole alcune sedie messe nei corridoi accanto alla sua cabina.
“E’ da tanto che fa questo lavoro?” chiese Anna sfoggiando un sorriso.
“Sì, avi 20 anni che travagghiu cà!” (si sono da 20 anni che lavoro qui)
“Uhm, allora conosce quasi tutti quelli che lavorano qui vero?”
“Sì, canusciu puru u sinnacu e u giudici Alassi!”(si conosco anche il sindaco e il giudice Alassi)
“Ultimamente non ha visto qualcuno di nuovo che viene spesso?”
Il portinaio prima la guardò scettico, poi credendo che fosse la solita pettegola di turno rispose tranquillamente:
“Aspetta anticchia, ora ca ci pensu, mi pari chi veni un picciottu, un padri di famighia un bravu picciottu. U pigghiaru ora ora pi puliziari.”(aspetta un po, ora che ci penso mi sembra che viene un ragazzo, un padre di famiglia, un bravo ragazzo, lo hanno preso or ora per pulire)
“Ha sentito della storia del signorino Carusi?” chiese ancora Anna.
“Ma ossia eni straniera? Picchi mi parla in italiano?”(ma lei è straniera? Perché mi parla in italiano?)
“Oh, sa è che i miei genitori mi hanno insegnato a parlare solo ed esclusivamente in italiano. Non mi viene facile usare il dialetto!”
L’uomo la guardò perplesso e poi sbottò con un
“Bah!” scuotendo la testa.
“Senta mi chiedevo una cosa? Se io volessi far arrivare una lettera ad un ufficio che devo fare?”
“Ci schivi l’indirizzu, ci metti u francubullu e poi a manna via posta!”(gli scriva l’indirizzo, ci mette un francobollo e la spedisce via posta!) fece l’uomo stizzito per la domanda stupida.
“No, non ci siamo capiti. Devo consegnare una lettera personale..” gli fece l’occhiolino.
“Senta signorina pi cu mi pigghiau?! Io sti cosi un li fazzu, ta che c’è cu chissa! Se vinni a pigghiarimi pu culu se ne può ghiri paghiri dà!” (per chi mi hai preso? Io queste cose non le faccio! Se è venuta a prendermi per il culo se ne può andare verso là) disse indicando l’uscita.
Anna prese delle banconote dalla borsetta.
“Neanche accompagnati con questi?” chiese ammiccando.
Il portinaio si adirò “Se un si ni va subbitu chiamu i carabbinieri!”(se non se ne va subito chiamo i carabinieri)
Anna presa dal panico cominciò a ridere nervosamente.
“Scusi, stavo solo facendo uno scherzo, bravo lei è onesto me ne compiaccio!”
Il portinaio la guardò assottigliando gli occhi furioso.
Anna capì che non era facile entrare. Anche perché c’erano dei carabinieri in divisa che sorvegliavano l’entrata.
“Guardi però che è vero che ho un appuntamento!” disse. Doveva entrare e controllare di persona.
L’uomo aprì un registro e puntò i suoi occhietti sulla donna.
“Il suo nome?” chiese
Per fortuna Anna facendo le pulizie aveva sbirciato nella agenda del giudice.
“Sono la signora Damalia!”
Il portiere passò il dito sulla lista e trovò il nome, così fece cenno alla donna di passare.
“Eni au sicunnu piano, nu corridoio a destra e tezza potta”(è al secondo piano il corridoio alla destra, terza porta!)
“Grazie!” disse Anna sorridente e soddisfatta della sua idea.
Mentre camminava per i lunghi corridoi vide un uomo delle pulizie che era appena uscito dall’ufficio del giudice Alassi: Quindi un possibile sospetto era quel uomo.
Si sedette su una sedia nel atrio di attesa. L’ufficio del giudice Alassi era il più grande di tutto l’edificio ed era l’unico con un anticamera dove i suoi clienti aspettavano il proprio turno.
All’improvviso dalla porta dell’ufficio uscì una donna vestita in modo elegante, che richiuse la porta alle sue spalle e si allontanò con una mazzetta di carte in mano. La salutò con un “Buongiorno” frettoloso e si allontanò. Anna ipotizzò che quella donna fosse Giusy la segretaria del giudice che ogni tanto chiamava a casa, la voce sembrava la sua.
Nel atrio non c’era nessuno e la porta dell’ufficio non era stata chiusa a chiave. Anna aveva il cuore che batteva a mille, ma doveva assolutamente entrare e indagare, così entrò in fretta nel ufficio.
Si avvicinò alla scrivania dove vi trovò l’agenda che aveva visto prima a casa e altre carte ammucchiate in un senso che sicuramente capiva solo Antonio. Poi i suoi occhi caddero su una busta poggiata sulla scrivania c’era scritto sopra “Per il Giudice Alassi” non aveva francatura, così la prese e la lesse mentre tendeva l’orecchio sul corridoio. All’improvviso sentì dei passi e in tutta fretta richiuse il foglio per metterlo nella busta. Ma l’agitazione le faceva tremare le mani e non riusciva a infilare quel maledetto foglio nella busta. I passi erano sempre più vicini. Era spacciata perché vide un ombra attraverso i vetri smerigliati. Poi, sospirò sollevata, l’ombra passò avanti, così con calma riposò la lettera. Era meglio che andava via prima che arrivasse la segretaria o qualcun altro.
“O Dio!” esclamò quando si voltò. D’avanti a se aveva niente poco di meno che l’avvocato Mario.
“Già O DIO!” la canzonò l’avvocato. La afferrò malamente per le braccia e fece scattare sui suoi polsi le manette gelide e pesanti.
“Noi due dobbiamo parlare!” le disse e la spinse fuori dal ufficio.
“Aspetti c’è un equivoco!” disse Anna.
Ma Mario non le diede retta spingendola di nuovo.

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Maria aspettò un paio di ore, dopo che i ragazzi si coricarono. La porta era chiusa a chiave e non poteva uscire da lì. Di certo i rapitori non erano così stupidi di lasciare l’ostaggio libero di gironzolare per la casa.
Nel pomeriggio quando si offrì di lavare i piatti, la ragazza riuscì a nascondere un coltello nei suoi pantaloncini. Silenziosa come un gatto si avvicinò alla finestra e pazientemente svitò la rete metallica che ostruiva il passaggio. Ci impiegò una ventina di minuti, perché il coltello ogni tanto scappava, ma alla fine ci riuscì. Con estrema lentezza staccò la rete dalla parete e la fece scivolare sul suolo adagiandola al muro senza fare rumore. Maria era tesissima: ogni piccolo rumore poteva essere la sua condanna. Lentamente uscì una gamba dalla finestra e nel passare l’altra gamba sul davanzale urtò un bicchiere che si trovava sul comodino. Maria se ne accorse in tempo e per fermare la caduta allungò il braccio in uno scatto nel tentativo di afferrare il bicchiere, ma nel impeto dell’azione, il bicchiere sembrò rimbalzare sulle sue dita, cascando sul materasso a molle. Il bicchiere sembrò prendere vita propria saltellando sulle lenzuola per poi battere contro il metallo del letto e cascare a terra producendo un fracasso, che a Maria sembrò di un volume insopportabile.
Si congelò nella posizione in cui era rimasta, pallida e con la bocca aperta in un espressione dolorosa e ansiosa. Tese l’orecchio sul corridoio e sentì solo russare. Ricominciò a respirare. Tuttavia la paura la bloccò ancora qualche minuto. Le vennero in mente Anna e suo padre e più decisa che mai varcò la soglia di quella finestra e cominciò a correre senza voltarsi indietro.
Si fermò nel mezzo di un campo arato per riprendere fiato. Si stupì nel trovarsi nelle campagne. La situazione diventava più difficile perché lei non conosceva le strade e correndo poteva arrivare ovunque. Ma non poteva stare lì, doveva fuggire a qualsiasi costo. Si fermò per riprendere fiato sotto un albero di ulivo. Il più grande che avesse mai visto, i suoi rami erano così lunghi che, curvati per il peso, arrivavano a toccare terra. l’albero era alto almeno 10 metri. Le venne in mente un immagine vista su un libro di scuola: un libro in cui si parlava di tradizioni, superstizioni, e leggende del paese. In quel libro c’era raffigurato un enorme ulivo, un albero secolare. Si narravano strane storie su quel albero. Dicevano che era infestato dagli spiriti. Se qualcuno osava rompere un ramoscello gli capitavano incidenti pericolosi. Si narrava anche che una notte scoppiò un grande incendio e misteriosamente il fuoco girò attorno all’albero come in un cerchio e non lo toccò, solo un pezzo andò a fuoco la fronda più bassa.
Non appena tutto le venne in mente tolse la mano dal tronco.
“L’agghiastru!” (l’olivastro) bisbigliò piano.
“Bello vero?”
“KYAAAAA!” Maria urlò dal terrore, chi aveva parlato? Allora era vero che c’erano fantasmi?
Maria sentì ridere qualcuno a crepapelle. Indietreggiò per il terrore.
“Chi è?!” disse con la voce tremante.
Da dietro il troncò spuntò Davide che se la rideva ancora di gusto.
“Dovevi vedere la tua faccia Maria. ‘Kyaaaaa! Chi è?!’ ” la imitò ironicamente.
“Brutto Stronzo!” disse Maria con gli occhi umidi ancora dallo spavento.
Davide all’improvviso si fece serio. “Dove credevi di scappare?” chiese assottigliando lo sguardo in un espressione crudele. Maria deglutì, adesso sembrava un altro ragazzo, le ombre della notte che gli si disegnavano sul volto lo rendevano terrificante, come un vampiro.
Lei rimase qualche secondo ferma indecisa sul da farsi, ma ormai Maria era in ballo tanto valeva provare a finire ciò che aveva iniziato. Si mise a correre a rotta di collo nella direzione opposta a quella di Davide.
Non sentì Davide imprecare o dire qualcosa, lo sentì solo scattare di corsa dietro di lei.
Maria era terrorizzata aveva paura di lui. La paura le rubava fiato e le faceva accelerare il battito cardiaco e si sentì presto stanca. Si voltò un attimo per assicurarsi che la distanza era abbastanza da permetterle un vantaggio. Ma Davide era terribilmente vicino. Mancavano pochi centimetri e l’avrebbe presa, così Davide diede una spinta più veloce e saltò in avanti.
La afferrò per la vita e persero l’equilibrio. Il buio nascose una discesa di 70° e i due ragazzi si ritrovarono a ruzzolare giù sulla terra passando sopra ortiche sassi e piccoli roveti.
Quando finalmente arrivò la pianura si fermarono gemendo per il dolore. Li sotto era ancora più buio e si intravedevano solo le sagome nere nella notte.
Davide si sentì strano aveva battuto la testa. Tuttavia si trascinò fino a raggiungere Maria. Le afferrò un braccio andando a tentoni. La ragazza non reagì.
“Maria?” provò a chiamarla ma la ragazza non rispose: era svenuta.
Davide sentì le forze venire meno, l’aria diventò all’improvviso poca e sentì qualcosa di viscido e caldo scendergli per il viso. Gli venne un giramento di testa e poi cadde privo di sensi su Maria.



Continua……
 
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view post Posted on 21/9/2010, 09:23
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Capitolo 5
Un nuovo alleato



Ogni nome è inventato perciò se ci sono delle coincidenze sappiate che sono casuali. ^^



Mario chiuse bruscamente la porta di una angusta stanzetta spoglia con un tavolo, due sedie e una lampada nera come quelle che si vedono nei film.
Sulla sedia c’era seduta Anna, teneva in mano una lattina di the fresco. Mario si sedette di fronte a lei e spense una sigaretta nel posa cenere che gli passò un uomo in divisa che se ne stava in un angolo in piedi.
Mario lesse un paio di carte su cui c’erano i dati di Anna.
“Signorina Anna Graffeo…”cominciò Mario, poi fece una pausa e si slacciò la cravatta. “nessun reato, fedina penale pulita, perfetta per intrufolarsi in posti senza destare sospetti. Per chi lavori?”
Anna sbuffò spazientita “Le ho già detto che è un equivoco, e se proprio vuole saperlo lavoro per il giudice Alassi!”
Mario le lanciò un’occhiata di rimprovero, prese di nuovo le carte e lesse che in effetti era ingaggiata come governante della casa Alassi.
“Allora che ci facevi a curiosare nel suo ufficio eh? Voleva vendere informazione riservate?”
“No, le dico che sono innocente, io non stavo facendo nulla di male!”
“Ah, nulla di male dici? Ti ho beccata con le mani nel sacco! Ti conviene parlare se non vuoi finire in galera per truffa.”
“Io non posso!” sbraitò lei.
Mario sbatté nervosamente la penna sul tavolo.
“D’accordo allora l’arresterò per tentata corruzione e per essersi spacciata per qualcun altro!”
“La prego, io stavo solo indagando, proprio come lei!”
“Ma mi faccia il piacere giocava alla signora Fletcher?”
Anna era molto combattuta voleva parlargli del rapimento, farsi aiutare, ma i rapitori avevano detto che avrebbero ucciso Maria ad ogni minimo movimento della polizia.
“Io…” disse e stinse le sue mani sulle gambe “Se parlo metto in pericolo una vita che mi è cara!”
Mario addrizzò le orecchie. Il suo intuito di detective gli suggeriva che sotto c’era qualcosa di grosso.
“Ma se non parla non possiamo aiutarla.” La incalzò lui.
“Lo so maledizione, per questo indagavo da sola!”
Mario la scrutò più attentamente, la ragazza che aveva d’avanti aveva gli occhi lucidi e dal linguaggio del corpo era evidente che non mentiva e che era stressata.
“Spegni la telecamera e poi esci!” disse Mario rivolgendosi alla guardia.
“Ma, signore io..”
Mario si girò e lo fulminò con lo sguardo. L’agente allora intimorito obbedì.
Quando finalmente furono soli Mario si alzò e si avvicinò alla finestra, e con movimenti lenti accese una sigaretta.
“Sa perché mi spaccio per avvocato?” fece una pausa per espirare il fumo, si girò verso la donna.
“Per scoprire qualcosa che incastri il signorino Carusi, quel maledetto bastardo ha ucciso a sangue freddo un mio amico, e farò di tutto per sbatterlo in galera. Le prove erano schiaccianti, ma qualcuno le ha sabotate, qualcuno che ha accesso alla caserma. Io mi sto fingendo avvocato per arrivare a chi porta informazioni, qualcuno sta facendo pressioni al giudice Alassi che continua a rimandare l’esito del caso, è evidente, lo si nota dalla sua faccia! E oggi trovo lei che si mette a curiosare nel suo ufficio. Sappi che se scopro che lei è invischiata in quel omicidio farò in modo che la sbattano in galera e buttino la chiave!”
“Ho scoperto varie cose, ma se adesso parlassi e lei sarebbe talmente idiota da mobilitare i suoi uomini ucciderà una persona!” disse Anna ormai in preda allo sconforto.
“Le giuro che il suo discorso rimarrà tra di noi!” disse il poliziotto tornando a guardare fuori dalla finestra.
“Come faccio a fidarmi?” chiese lei osservando le spalle del detective, erano larghe, ampie come se servisse a proteggere le persone deboli.
“Beh non sono un idiota, è chiaro che in questa faccenda c’è di mezzo la mafia. E posso solo dirle che io sono dalla sua parte!”
Mentre Mario parlava l’occhio di Anna cadde su alcune carte, e le prese adagio senza far accorgere il poliziotto. Era un rapporto su di lei, dove lei doveva firmare per indicare che era stata portata in caserma, e dopo averla interrogata si è rivelata innocente da un sospetto furto ad un supermercato.
La cosa le era sembrata assurda, perché doveva firmare una carta in cui era sospettata di furto e non di associazione a delinquere o complice di omicidio e roba che centrava con Carusi, come aveva detto prima lui?
Si chiese come mai quel uomo si fingeva avvocato, poteva benissimo indagare come detective facendo domande gli sarebbe stato più facile svolgere il suo lavoro. Le venne in mente che molto probabilmente quel tizio era come lei. Così per scoprirlo provò a bluffare.
“Ho capito, lei in realtà non è tenuto a indagare sul caso del signor Carusi vero? Visto che la vittima era un suo caro amico; lo hanno sospeso da questo caso perché coinvolto emotivamente. Mi dica se non ho ragione! Ha fatto spegnere le telecamere e ha fatto uscire l’agente per dirmi che stava indagando su quel caso quando invece è stato espressamente allontanato dal suo superiore. E per non lasciare tracce ha tolto di mezzo possibili testimoni, ovvero il suo agente e il filmato!”
Mario sembrò irrigidirsi, e Anna vide che fumava avidamente come se volesse calmare l’agitazione.
“Sì, è così!” disse Anna guardandolo negli occhi.
“Per questo si spaccia per avvocato, per questo dovrei firmare questo foglio che mi scagiona dal sospetto di furto ad un supermercato. Su confessi….” Fece una pausa rendendo il suo tono più dolce “…lei sta indagando da solo non è vero? È per vendicare il suo amico è disposto a rischiare il suo posto.”
Mario si voltò lentamente verso di lei, aveva la bocca spalancata in un espressione sorpresa.
“Beh signor Mario, io sono come lei, mi fingo detective per scoprire dove si trova la mia piccola Maria!” disse lei puntando i suoi occhi marroni in quelli azzurri del finto avvocato.
“Come fa a sostenere quello che dice?” disse lui finalmente. Si sedette al tavolino di fronte la donna.
“In questi giorni ho indagato, e non sottovaluti le fonti di una donna!”
A dire il vero non aveva scoperto un bel niente ma l’espressione del investigatore aveva confermato ciò che aveva appena azzardato a dire.
Mario si mise a ridere tenendosi la fronte, poi sollevò lo sguardo sulla donna. Aveva ragione era solo in quel indagine. Non aveva compagni, non si fidava di nessuno nel suo distretto. Ma questa donna aveva i suoi stessi obbiettivi, era un buon esterno, inoltre era anche la governante del giudice, poteva essere un ottimo complice. Gli sembrò una pazzia, ma la donna gli era sembrata in gamba. Così afferrò le mani della donna con decisione.
“Anna, possiamo darci una mano a vicenda, se mi dici cosa hai scoperto io l’aiuterò a trovare sua figlia!”
Anna sorrise dolcemente “Non è mia figlia, e se davvero vuole aiutarmi non deve parlarne con anima viva o avrà una vita sulla coscienza!”
“Siamo solo noi due Anna! Insieme forse riusciremo a mandare in galera quel bastardo, e ritrovare Maria!”
Anna sospirò e decise di fidarsi, così parlò. Gli raccontò della rapina, delle lettere che arrivano puntualmente ogni giorno nel ufficio del giudice, dicendogli che stava appunto leggendo una di quelle lettere, quando lui l’aveva interrotta.
Gli disse che aveva deciso di indagare e provare a salvare Maria prima che il caso del signorino Carusi finisse. Gli disse che aveva sempre disprezzato l’assenza dei genitori in casa Alassi, che se lo erano meritati una cosa del genere. Ma che era preoccupata da morire per Maria che le voleva un mondo di bene come se fosse una sorella. Parlò per un ora intera, poi lo stress la fece piangere.
“Se lei mi tradisce, mi farà morire di crepacuore, la prego mi aiuti!” disse tra le lacrime.
Mario le porse un fazzoletto di stoffa per asciugarsi le lacrime. Ma Anna lo usò per soffiarci il naso.
“Grazie!” disse Anna ridandogli il fazzoletto inzuppato di lacrime e muco nasale.
Mario lo prese schifato cercando di fare finta di nulla e lo buttò sena farsene accorgere.
“Anna, lei è la donna più in gamba che abbia mai conosciuto, dovrebbe fare l’investigatore ha davvero del talento!”
Anna gli sorrise “Dice davvero?”
“Sì, ma diamoci del tu, adesso siamo compagni!” e così dicendo le porse la mano per suggellare il loro patto.
Anna l’afferrò con vigore. “Grazie Mario!”
“Il mio nome è Fabio.” Le disse sorridendo.



Maria aprì gli occhi lentamente e la prima cosa che vide fu un cielo stellato così pieno di stelle che si chiese se fosse ancora sulla terra. Alzò il busto lentamente e sentì un peso addosso. Una fitta al braccio la fece gemere. Finalmente si accorse che sul suo seno c’era Davide svenuto. Istintivamente poggiò la mano sulla testa del ragazzo per spostarlo. Ma invece di toccare capelli toccò anche qualcosa di vischioso.
“Che diavolo?” avvicinò la sua mano al naso e sentì un aroma ferroso, capì che si trattava di sangue.
Cercò di toglierselo di dosso, ma il ragazzo era pesante e le ferite alle braccia le impedivano di mettere più forza. Così provò con un colpo di reni, ma una fitta alla gamba le tolse il respiro.
Cominciò a piangere disperata e nervosa. E diede dei pugni sulle spalle del ragazzo.
“Brutto deficiente!” frignò. Poi si calmò, il cielo stava cominciando a rischiararsi. Riuscì a vedere il viso di Davide imbrattato di sangue. Aveva un espressione dolorosa sul viso. E Maria provò pietà per lui.
“Uhm!” Davide si risvegliò grazie ai dolori che aveva. Quando aprì gli occhi non capì dove si trovava, si sollevò con l’aiuto delle braccia, e vide Maria sotto di se con la faccia sporca di terra e i vestiti sporchi di sangue e fango. Una fitta alla testa lo fece gemere. Provò ad alzarsi ma non appena fu in piedi un senso di vertigini lo fece inginocchiare. Maria intanto si alzò, ma non appena fu in piedi un dolore acuto alla caviglia la fece cadere a terra.
Davide si mise a ridere “è proprio vero, donna significa danno!”
Maria incrociò le braccia e grugnì stizzita.
“Se tu non ti buttavi addosso a me saremmo ancora sani.”
Davide si innervosì “Se tu non saresti scappata non sarebbe successo un bel niente!” si sollevò piano e si strappò la maglia e la legò alla testa per fermare l’emorragia e per impedire che la ferita si sporcasse ulteriormente.
Davide si avvicinò alla ragazza e si inginocchiò per fasciarle la caviglia. Maria gli strappò di mano la maglia lacerata e gli cacciò via le mani.
“Faccio da sola!” disse e nervosamente si fasciò.
Davide la fece sollevare bruscamente e si passò il braccio sulle spalle. Si guardò in giro.
“Oh cristo dove cazzo siamo?!”
“Unni pessi i scappi u signuri!” (‘dove ha perso le scarpe il signore ’, riferito a Gesù) rispose Maria.
“Fai anche la spiritosa adesso? Merda eri così carina, mi stavo divertendo e tu hai rovinato tutto!”
“Oh mi dispiace aver fatto la guastafeste!” rispose sarcastica lei.
“Quindi è questa la tua vera faccia? Beh sai una cosa mi piaci di più, mi diverto di più quando gli ostaggi sono così combattivi.”
Maria deglutì, che voleva dire? L’avrebbero legata come un salame? L’avrebbero rinchiusa in una cassa? O peggio in un buco senza cibo e acqua? In quel momento non le interessava voleva scappare ma adesso non poteva fare un bel niente con la caviglia conciata in quel modo.
Davide fece un passo trascinandosi la ragazza, ma Maria ebbe difficoltà e gemette per il dolore perché aveva urtato una gamba di Davide.
Davide sbuffò “Ah odio i figli di papà viziati!” disse e con un braccio raccolse le gambe della ragazza mettendosela in braccio.
Maria arrossì, non era abituata a stare così vicina ai ragazzi.
“Guarda che fa male sul serio, altrimenti ti avrei lasciato qui a morire dissanguato!”
Davide stava per ribattere ma inciampò in un sasso nella terra e cadde verso avanti.
“Ahia, così non ci siamo non vedo dove metto i piedi!” disse mentre si sollevava.
Maria affondò le unghia nel braccio di Davide, per un attimo lui aveva creduto che volesse graffiarlo. Ma gli occhi di Maria erano puntati in un’altra direzione e li aveva spalancati dal terrore.
Alle sue spalle sentì ringhiare.
“Oh no!” bisbigliò, si voltò lasciando Maria a terra. Di fronte a se c’erano tre cani belli grossi, con la bava che colava dalle fauci, e gli occhi pieni di fame.
 
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view post Posted on 22/11/2010, 18:26
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Capitolo 6

Notte di paura



Maria era terrorizzata; rimaneva ferma e immobile con gli occhi spalancati dalla paura. Le gambe improvvisamente le divennero pesanti, e non riusciva fare altro che guardare quei cani: al buio rischiarati lievemente dalla luna sembrarono tre mostri, pronti a sbranarla. Lei aveva sempre avuto paura dei cani, e quei tre le parvero i più spaventosi mai visti prima di allora.
“Maria…” La voce di Davide fece sussultare la ragazza.
“Non fare movimenti bruschi.” Le disse il ragazzo, mentre si abbassava lentamente. Raccolse un ramo di un ulivo spezzato e si sollevò sempre lentamente.
Solo adesso sembrava che Maria si fosse risvegliata dal torpore in cui era caduta. Si trascinò sulle braccia all’indietro. Con la mano ruppe un ramoscello, il suono che ne scaturì, sembrava aver dato l’avvio a qualcosa che fece scattare i cani; balzarono in avanti verso i due ragazzi.
Uno dei cani si lanciò su Maria, che terrorizzata si abbassò coprendosi la testa con le mani.
Davide scattò di lato e con un movimento del busto, e fendendo il bastone a mo di mazza da baseball, colpì il cane sul capo; l’animale cadde al suolo guaendo. Per proteggere la ragazza Davide non tenne conto degli altri due cani. Uno era riuscito a raggiungerlo e lo azzannò al polpaccio.
Davide urlò dal dolore, poi per liberarsi, iniziò a dargli dei pugni sulla testa. L’ultimo cane invece di aiutare il suo simile pensò di andare verso la preda più facile da abbattere. Corse nella direzione di Maria.
“Maria!” urlò preoccupato Davide che nel frattempo lottava contro il cane.
Senza ulteriori indugi estrasse la pistola dalla fondina e sparò colpendo in pieno cranio il cane; cadde e morì. Durante lo sparo, il cane che gli aveva azzannato il polpaccio si spaventò e indietreggiò con la coda tra le gambe.
Davide urlò per incutere ulteriore paura. Inspiegabilmente i cani intuendo di non riuscire a vincerli scapparono via arrendendosi.
Maria vedendoli allontanarsi, si sentì svuotare di tutta la tensione e perse i sensi.
Davide si lasciò sedere sul terriccio ansimando per la fatica. Arrivò finalmente l’alba, e vide i segni del morso sul polpaccio e il sangue che colava dalle ferite. Si voltò verso Maria che era distesa sulla terra priva di sensi; sospirò infastidito al pensiero che con la ferita al polpaccio e la ragazza svenuta, avrebbe faticato il triplo per tornare alla base. Con l’ultimo pezzo della sua maglia si fasciò il polpaccio. Poi, si sdraiò sulla terra anche lui per rinfrancarsi dalla fatica.
“Devo chiedere un extra.” Constatò.





Fabio se ne stava seduto al tavolino del bar di fronte al tribunale, a sorseggiare un cappuccino.
Di fronte a se, poggiati sul tavolino, aveva dei fogli su cui aveva scritto i vari indizi e informazioni che aveva raccolto riguardo al caso Carusi.
Guardò nuovamente l’orologio: era la quinta volta che lo guardava. Aveva appuntamento con Anna, ma la ragazza non era ancora arrivata. Prese il cellulare deciso a chiamarla, ma non appena lo portò all’orecchio dalla porta entrò Anna, accompagnata da un ragazzo piuttosto giovane; a occhio e croce doveva avere una ventina di anni. Anna si avvicinò al tavolino di Fabio, mentre il ragazzo che l’accompagnava aspettava vicino al bancone.
“Sei in ritardo.” Disse Fabio alla donna.
“Sì, scusami. Senti andiamo in qualche posto più tranquillo, qui ci sono troppe orecchie.” Disse Anna indicando con un gesto della testa il barista.
Fabio annuì, si diresse verso il bancone e pagò la sua consumazione.
Dopo che Anna salì sull’auto del cugino disse a Fabio di seguirlo. Così lui si diresse velocemente alla sua BMV e li seguì.
Fabio scendendo dall’auto inspirò a pieni polmoni l’aria salmastra del mare. Il sole brillava alto, e i suoi raggi scaldavano l’aria e la sabbia, rendendo quest’ultima bollente.
Era un giorno sereno, caldo e afoso. La spiaggia di Capo San Marco, era una striscia di sabbia protetta da una collina sul lato ovest. Mentre al lato est la sabbia continuava interrotta ogni tanto da qualche scoglio di varie dimensioni, fino ad arrivare ad una parete di terra, grande abbastanza da non permettere il transito neanche via mare per i turisti pedoni. Oltre quello scoglio continuava la sabbia fino a perdersi all’orizzonte. C’era poca gente sul posto: qualche coppietta, o qualche turista in vacanza con la famiglia. Fabio raggiunse Anna e il ragazzo che l’accompagnava.
Anna si era tolta le scarpe e camminava lentamente con i piedi a mollo. Indossava una vestitino di cotone giallo, sembrava una turista.
“Fabio ti presento un mio cugino. Si chiama Salvatore.” Disse Anna indicandogli il ragazzo.
Fabio strinse la mano al giovane titubante.
“Perché mi hai portato fin qui?” chiese Fabio rivolgendosi ad Anna.
Anna raggiunse i due uomini e si sedettero sulla sabbia.
“Salvatore conosce molta gente fra i mafiosi…” iniziò Anna passando un braccio sulle spalle del ragazzo. “Salvatore ha avuto un adolescenza molto vivace.” Continuò.
“Anna!” la interruppe bruscamente il cugino. “Non raccontare i fatti miei ad uno sbirro.” Disse con astio il giovane, guardando torvo il detective.
Anna sospirò “OK, ti ho fatto conoscere mio cugino perché gli ho chiesto di darmi una mano nelle indagini.”
Fabio si accese una sigaretta fingendo di non aver sentito la parola sbirro.
“Capisco.” Disse soffiando un po di fumo.
“Dimmi Salvatore, ultimamente ci sono stati dei movimenti strani? Qualcuno che non si vede da giorni?” chiese Fabio.
“Aspetta un attimo, mettiamo in chiaro una cosa: io ti do delle informazioni, ma tu che mi dai in cambio?” chiese Salvatore poco amichevole.
“Salvatore!” sbraitò Anna spazientita.
“Anna, lo sai benissimo che a me non me ne frega niente di quella ragazzina viziata, se ho deciso di aiutarti è perchè ti voglio bene; ma se devo collaborare con uno sbirro, voglio almeno ricevere qualcosa in cambio da tutta questa faccenda.” Dopo aver pronunciato quelle parole guardò dritto negli occhi il detective. All’inizio Fabio rimase serio, rimanendo sorpreso dalla fermezza di carattere di quel ragazzo non ancora uscito dall’adolescenza. Poi si mise a ridere.
“D’accordo, se ci aiuti io ti pulisco la fedina penale, la faccio diventare più bianca del marmo della madonna del soccorso.”
“Va bene, ci sto, vi darò una mano.” Disse Salvatore dopo qualche attimo di riflessione.
“Ascolta Salvatore, abbiamo saputo che c’è qualcuno che porta ogni giorno una lettera al tribunale, per il signor Alassi.” Disse Anna.
“Io e Fabio abbiamo selezionato dei possibili sospetti.” Disse mentre con una mano si sbottonava il vestito all’altezza del petto. “Abbiamo delle foto, ora te le mostriamo, tu dimmi se conosci qualcuno.” Nel voltarsi verso Fabio, Salvatore vide che gli occhi del detective erano puntati su un posto sbagliato: la scollatura della cugina. Salvatore si mise nella traiettoria di quello sguardo ammonendolo con uno sguardo furente.
“Pigghia sti foto.” (piglia queste foto) Disse Salvatore quasi con tono arrabbiato.
Fabio che fino a un minuto prima era incantato si scosse.
“Sì, certo.” Disse e prese dalla borsa le foto.
Il ragazzo le esaminò con attenzione. Poi puntò il dito su uno dei ritratti. Era il barista di “il solito posto” uno dei ragazzi part-time che faceva le consegne degli ordini negli uffici.
“E’ lui.” Disse Salvatore. “Non credo che però sia immischiato in questa faccenda. Di solito spaccia, ma lavora a quel bar per non fare sospettare ai suoi genitori dei suoi affari. Si chiama Paolo. Sicuramente gli avranno chiesto di fare il corriere.”
“Per chi lavora?” chiese Fabio ansioso.
“Di solito la roba la prende da Don Ciccio, che a sua volta la prende da Don Carusi. Provo a indagare, non appena so qualcosa vi chiamo.”
“Adolescenza vivace?” fece Fabio sarcastico. “Sai parecchie cose per essere così giovane.”
Salvatore diede una occhiata al suo orologio, quindi si alzò.
“Io devo andare adesso, Anna vieni con me?”
“No, tu vai pure, mi faccio accompagnare da Fabio.” Gli rispose Anna.
Prima di andarsene guardò severamente Fabio. “Ehi zio, tieni una distanza di sicurezza di almeno mezzo metro da mia cugina.”
Anna gli tirò una delle sue scarpe sorridendogli.
“Ma va cucati, scimunito.” (ma vai a coricarti, scemo) gli disse. Salvatore si chinò verso di lei e le diede un bacio sulla guancia, per poi andarsene.
Prima che Salvatore accendesse la sua auto, Anna lo chiamò, e con lo sguardo pieno di preoccupazione gli disse: “Stai attento.”
Salvatore annuì e poi andò via.
“Bene, adesso sappiamo dove guardare.” Disse Fabio riponendo le foto nella borsa. Poi guardò Anna che si faceva aria con una cartolina. Aveva raccolto i capelli e qualche ciocca le ricadeva sul viso e sul collo. Ripensò a quando la vide al bar, aveva sospettato che fosse una di quelle donne che non si facevano mai gli affari loro, e le aveva offerto un caffè per accertarsi che fosse solo una delle tante pettegole. Ma doveva ammettere che Anna gli piaceva, non solo fisicamente; il coraggio che stava mostrando in quella indagine lo affascinava. Non credeva che esistessero donne capaci di tanto coraggio e determinazione. E poi la cosa che gli piaceva maggiormente era il fatto che non fosse pettegola, lui odiava sparlare della gente, e spesso rimproverava sua madre quando la sorprendeva a farlo; anche se avvolte ne approfittava per le sue indagini.




Davide era riuscito a trascinarsi la ragazza a fatica. Erano arrivati presso una fonte di acqua: un antico abbeveratoio, dove tutt’oggi i pastori portano il bestiame a dissetarsi. Oltre alla vasca in cemento, vi erano diversi rubinetti, dai quali usciva acqua potabile.
Maria si risvegliò bruscamente, sentendo l’acqua ghiacciata bagnarle il viso.
“E’ ora di svegliarsi bella.” Disse Davide con un tono fin troppo allegro.
Maria si guardò in giro smarrita, poi si ricordò di quello che era successo.
“I cani?!” chiese guardando verso Davide, che in quel momento aveva ficcato la testa sotto il getto dell’acqua. Poi allontanandosi strizzò i capelli e se li tirò indietro, mentre le gocce d’acqua scendevano a carezzargli il collo virile, per poi scendere ancora tra i solchi dei pettorali. Era l’immagine più sexy di un uomo che Maria avesse mai visto. “li ho sistemati.” Le disse lui, mentre inzuppava un panno sotto il getto dell’acqua.
“Come ti senti?” chiese Davide inginocchiandosi di fronte alla ragazza. Prima ancora di aspettare la risposta le pulì il viso con lo straccio delicatamente.
“Non lo so, mi sento stordita, la caviglia mi fa un male cane.” Gli rispose senza neanche pensarci.
Poi fermò la mano di Davide, il panno la faceva sentire più sporca di prima. Si alzò e zoppicando vistosamente si avvicinò alla fontana per lavarsi il viso e per bere.
Non riusciva ancora a rendersi bene conto della situazione; poi, man mano che recuperava la lucidità, le piombò addosso una grande ansia, accompagnata dalla frustrazione per non essere riuscita a fuggire. E come se non bastasse si era anche ferita, rovinandole ogni piano di fuga. Diede un pugno sul cemento facendosi male. Poi si passò una mano tra i capelli per fermare quel groviglio di sentimenti che la turbavano. Poi anche lei mise la testa sotto il getto dell’acqua.
Non appena finì di rinfrescarsi, Davide si abbassò caricandosi la ragazza sulla spalla, in modo tale che le gambe le avesse sulla parte anteriore.
“Ehi!” strillò lei dallo spavento. Davide non le diede neanche peso e iniziò a incamminarsi lentamente verso la base.
Maria non provò neanche a ribellarsi, ben consapevole che non poteva fare molto con un piede zoppo. Dopo qualche minuto lei notò la ferita sul polpaccio di Davide. Era un gran brutto morso, e aveva anche iniziato a zoppicare. Maria si ricordò che fu proprio per salvare lei che si era procurato quella ferita. Si sentì in colpa.
“Dovresti disinfettarti il più presto possibile.” Disse mogia.
“Sì, lo so.” Gli rispose Davide.
Seguirono minuti di silenzio, in cui Maria lottava con se stessa reprimendo quella sensazione di colpevolezza.
“Grazie per prima.” Disse infine mossa dalla gratitudine.
Davide rimase sorpreso, poi sorrise: almeno aveva apprezzato il gesto. Scese un silenzio imbarazzante. Maria cominciò a stancarsi a stare in quella posizione, così cercò di sollevarsi un po’ per allentare la pressione sul ventre. Davide ebbe un sussulto, e lei si rese conto che nello sollevarsi aveva fatto leva sui glutei del ragazzo con le mani. Imbarazzata le sollevò di scatto cercando di poggiarsi sulla schiena. Davide barcollò all’indietro.
“Ehi, guarda che pesi, se poi ti muovi cadiamo a terra.”
“Scusa, ma mi sta venendo il mal di mare.” Disse lei. Allora lui si abbassò e la fece scendere, per potersi riposare.
Si sedettero su un sasso. Davide si accese una sigaretta. Maria intanto si guardava in giro. La prima cosa che notò fu che erano in aperta campagna, e che non passava anima viva in quel posto. Se passava qualcuno avrebbe potuto urlare e chiedere aiuto per farsi salvare, ma lì non c’era nessuno.
Di fronte aveva un campo immenso di ulivi, mentre voltando il capo verso ovest c’erano campi con aranci e limoni. Il marrone e i verdi si mescolavano in modo armonico con l’azzurro del cielo. Sentì gli uccellini cinguettare, e vide in lontananza delle lepri che correvano tra l’erba. Sentiva il frinire delle cicale. Le farfalle bianche volavano da fiore in fiore, e il sole scaldava l’aria. Lei era abituata alla città, al traffico.
La vista della natura, e ascoltandone i suoni si sentì più leggera.
“Come ti è sembrato?” chiese Davide sbuffando un po’ di fumo.
“Cosa?” chiese lei confusa.
“Hai tolto le mani dal mio sedere come se fosse stato infuocato. Così non ho capito: ti faceva schifo o ti piaceva troppo?”
"Eh?” fece lei alquanto perplessa e confusa.
Davide iniziò a ridere di gusto, gli piaceva troppo vedere le smorfie strane che faceva il suo ostaggio. Spense la sigaretta sulla roccia, poi si caricò di nuovo la ragazza sulle spalle.
“Se ti vuoi appoggiare puoi farlo, se è una ragazza che mi palpa le chiappe non mi dispiace.” Disse sorridendo ancora.
“A proposito…” aggiunse iniziando a incamminarsi “anche tu hai un bel culo.”
Maria arrossì, prima per l’imbarazzo, poi per il nervoso.
“Sei un maniaco.” Sbottò. Iniziò a scalciare “Fammi scendere.” Strillò: non voleva stare in quella posizione un minuto di più.
“Ehi calmati, che ho detto? Ti ho solo fatto un complimento.” Maria continuò a scalciare, così Davide fu costretto a farla scendere.
“Mamma mia certo che sei permalosa.” Si lamentò il rossino.
“Stai zoppicando.” Disse lei sorprendendo il ragazzo.
“Se continui a portarmi in spalla, ti si può allargare la ferita.”
“Lo so.” Gli rispose Davide.
“Come sarebbe a dire lo sai?! Non ti fa male?” insistì Maria.
- Ti prego non farmi quel faccino tenero, non resisterò a lungo.- pensò Davide deglutendo a vuoto.
Il rossino si portò una mano sulla nuca, distogliendo lo sguardo dalla ragazza. Se se la caricava sulle spalle un motivo c’era e non aveva voglia di dirglielo.
“Ascolta Maria….” Disse Davide guardandosi in giro come se potesse cogliere le parole dall’ambiente. “dobbiamo tornare alla base il più presto possibile.” All’improvviso come se Davide si fosse ricordato di qualcosa di importante, prese dalle tasche un fazzoletto e le coprì gli occhi.
“Scusami ma devo farlo.” Disse pensando poco dopo di essere un idiota a non averci pensato prima.
Maria lo lasciò fare, ebbe la sensazione che la frase che aveva appena pronunciato era incompleta, come se non volesse rivelare qualcosa a lei. Ma credeva di capire cosa fosse. Se insisteva sul fatto che dovevano arrivare il più presto possibile, significava che non voleva far preoccupare i suoi compagni; o che comunque aveva a che fare con i suoi colleghi.
In realtà Davide voleva tornare il più presto possibile, non solo per non far preoccupare i compagni, ma soprattutto per evitare che la situazione degenerasse. Conoscendo i suoi colleghi, era certo che avrebbero preteso che la ragazza fosse legata. Sicuramente l’avrebbero picchiata e spaventata, in modo che avrebbe capito che non erano così gentili come sembravano. A lui non andava di torturarla. La trovava troppo carina; oltre al fatto che non era il solito ostaggio terrorizzato, che piagnucolava tutto il tempo. In effetti si chiedeva come mai Maria l’aveva presa così bene; infondo teoricamente era in pericolo. Tra le sue coetanee sembrava decisamente molto più coraggiosa. Non riusciva a spiegarsi il comportamento della ragazza. O era abituata a nascondere le sue vere emozioni, oppure era semplicemente incosciente.
Però doveva ammettere che gli piaceva davvero molto questo aspetto della ragazza.
Si chinò per sollevarla e mettersela sulla spalla ma Maria lo fermò.
“Aspetta, se mi porti via come un sacco di patate rischio di vomitarti addosso, cambiamo posizione… ti prego.”
Davide annuì, in effetti la spalla gli doleva, quindi si passò le braccia sul collo e la portò via a cavalluccio. Maria ebbe una stranissima sensazione, quella posizione e l’odore di tabacco le fecero venire in mente suo padre: i giorni felici della sua infanzia, quando la sera passeggiavano sulla piazza Angelo scandagliato, e lei troppo stanca si faceva portare da suo padre. Lo stress che aveva accumulato la fecero sentire stanca, nonostante avesse dormito priva di sensi. Il dolce cullare dell’andatura e la caviglia che non doleva la invogliarono ad assopirsi. Gli occhi si fecero pesanti, e poggiò la testa sulla spalla del ragazzo, giusto appena per fermare la testa che aveva iniziato a ciondolare. Senza rendersene conto si appisolò.
Quando Davide se ne accorse non credeva ai suoi occhi: si era addormentata come una bambina. Sorrise scuotendo la testa esausto, tanto non avrebbe mai capito le donne.
Arrivarono alla base dopo un paio di minuti. A dispetto di ogni previsione trovò alzato Gianni. Proprio quello più severo, quello più sadico.
“Lo hai fatto di nuovo vero?” disse Gianni guardandolo malizioso.
Maria in quel momento si svegliò bruscamente. Davide la fece scendere, e lei si tolse immediatamente la fascia che le copriva gli occhi.
“Ti ha fatto lo scherzo del olivastro vero?” chiese Gianni alla ragazza.
Lei non sapendo cosa rispondere osservò Davide incuriosita.
“Lo fa sempre, aspetta che l’ostaggio scappa e lui la segue silenzioso, poi la spaventa. E chissà perché scappano tutti verso quel….” Si interruppe quando notò la ferita alla testa del ragazzo e la caviglia fasciata di lei.
“Ti ha dato del filo da torcere eh?” disse mentre il suo sguardo si fece minaccioso. Si avvicinò ai due osservandoli attentamente. Allungò un braccio per afferrare la ragazza, ma la mano ferma di Davide la bloccò. In quel momento Maria ebbe un brivido lungo la schiena, si sentiva come una preda di fronte ad un feroce felino. Istintivamente fece un passo indietro posizionandosi alle spalle di Davide.
“Cerca di stare calmo.” Disse guardandolo severo negli occhi. “Vai a svegliare Michele, portate un medico e ditegli di portare l’antirabbica, e roba varia per i morsi di animali.”
Gianni scostò il braccio in uno scatto poi con un espressione furiosa guardò prima Davide e poi Maria. “Si devono addomesticare quelle ribelli, o andrà tutto a puttane.” Disse Gianni provando nuovamente ad afferrare la ragazza.
Davide con impeto afferrò il suo colletto e si portò molto vicino a lui con aria minacciosa.
“Sono ancora io il capo, quindi vedi di rispettare i ruoli, ti ho appena dato un ordine. Eseguilo o ti …..” si interruppe per non diventare troppo volgare di fronte alla ragazza. “… o finisce a schifiu.”
Dopo che Davide lasciò la presa, Gianni rincasò borbottando sottovoce: “ Capo di sta minchia.” Anche se Davide lo aveva sentito, fece finta di nulla, per evitare di discutere ancora.
Don Carusi glielo aveva detto che Gianni era indisciplinato, e gli aveva anche raccomandato di non perdere le staffe con lui; lo aveva raccomandato come se fosse stato uno scolaretto da recuperare.
Lui aveva risposto che non c’erano problemi e che sarebbe stato capace di tenergli testa. Ma conoscendolo meglio si era accorto che non era facile collaborare con lui, era una testa calda; doveva stare molto più attento a quello che diceva o faceva. Doveva evitare in tutti i modi di dargli una ragione per ribellarsi o agire sconsideratamente.
Maria iniziò a preoccuparsi, sentiva che stava crescendo la tensione, e che il clima stava cambiando. E da quel che percepiva di sicuro sarebbe peggiorato.


 
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CAPITOLO 7
Una piacevole chiacchierata

“Tuo cugino cosa fa nella mala?” chiese Fabio mentre con un piede giocherellava con la sabbia.
Si trovavano sulla spiaggia di San Marco, e dopo che Salvatore era andato via decisero di rimanere un po’ per parlare e riflettere sul caso. Oltre al fatto che in quel posto il relax prendeva il sopravvento, soprattutto con il caldo che toglieva le forze e la voglia di fare qualcosa.
Anna abbassò la testa e sorrise amaramente “lui fa tanti piccoli lavoretti, potremmo dire che è all’inizio della carriera.” Disse.
“Perché non lo tiri fuori dal giro? È ancora così giovane.” Constatò Fabio con noncuranza.
Anna sembrò diventare triste “Ci ho provato, ma lui ha scelto da solo la propria strada.” Disse circondando le gambe con le braccia. “Dice che vuole solo fare un po’ di soldi, ha detto che non vuole invecchiare in un lavoro normale, che gli servirà per sopravvivere. Lui vuole realizzare i suoi sogni. Pensa che vuole diventare un famoso saxofonista. Ed è anche molto bravo sai? Mi ha promesso che non si farà coinvolgere dalla mafia più di tanto, e una volta che ha racimolato il necessario per vivere bene, andrà in America e lì sfonderà come jazzista.”
“Ma perché non si iscrive al conservatorio? Perché fare soldi in quel modo? Non è più facile per lui chiedere una borsa di studi? Se poi lo arrestano può dire addio a tutti i suoi sogni.” Sbottò Fabio indignato: come poteva infangarsi in quel modo per realizzare un sogno così bello?
“Salvatore non ha genitori su cui può contare, suo padre è alcolizzato mentre sua madre è morta quando lui aveva dieci anni.” rispose Anna mogia, osservando la spuma delle onde disperdersi nella sabbia. “Lavorando alla sua età non troverà un vero e proprio lavoro. I soldi che dovrebbe guadagnare non gli basterebbero nemmeno per vivere decentemente. Quindi il modo più facile e veloce è quello di diventare un picciotto di Don Carusi. Guadagna molto di più e lavora di meno, così ha il tempo per studiare. Io purtroppo non posso aiutarlo più di così, gli do dei consigli, ma deve essere lui a decidere.”
“Ma il lavoro… si chiamiamolo così.. sta cosa che svolge è comunque sbagliata, anche se lo fa per realizzare i suoi sogni. Secondo me dovrebbe provare per vie oneste.” insistì Fabio mentre si accendeva un’altra sigaretta.
Anna sbuffò “E’ proprio vero. Quelli che hanno avuto una vita normale non capiranno mai.” Disse con un’espressione di amarezza dipinta sul viso. Lei sapeva i rischi che correva suo cugino, sapeva che c’era anche un’altra scelta. Ma sapeva anche che spesso una vera e propria scelta non c’era. Spesso la vita costringeva le persone a percorrere sentieri bui. Coloro che avevano tutte le vie illuminate, erano le persone che possedevano i soldi, che nascevano fortunati, che potevano permettersi di scegliere cosa fare e cosa volevano diventare. Salvatore aveva deciso di provare a raggiungere quella via illuminata passando prima per quella buia, quella sbagliata, perché sapeva che quella via portava sicuramente alla meta, anche se era pericolosa. Mentre quella onesta, dei poveri, avvolte sembrava che a metà strada cessava, perché diventava troppo stretta, o accidentata. Consapevole di ciò, Anna frustata, tolse la sigaretta dalla bocca del detective e se la portò alle labbra, aspirando una boccata di fumo.
Prese dalla sua borsa un foglio di carta piegato in quattro e lo porse a Fabio.
“Oggi ho trovato questa lettera. Prima di questa ne sono arrivate altre due, e tutte chiedono la stessa cosa, ovvero rimandare il giudizio finale sul caso.”
Fabio lesse attentamente la lettera. “Accidenti è scritta al PC. Sicuramente non ci sono impronte digitali su quella originale. C’è qualcosa di strano in questa storia.” Disse Fabio e rubò la sigaretta ad Anna “Scusami, ma ho bisogno delle sigarette per concentrarmi. E questa era l’ultima.” Le disse.
“Tu mi hai detto che hanno chiesto lo ‘scagiona mento’ del signorino Carusi. Ma non vogliono farlo liberare subito. Qui c’è qualcosa che mi puzza.” Constatò il detective rigirandosi la sigaretta fra le dita per poi porgerla di nuovo ad Anna.
“E se stessero organizzando qualcosa all’interno del carcere?” disse Anna.
“Sì, ci ho pensato anch’io. Ma non ci sono state notizie di omicidi o cose strane che provengono dal carcere. A meno che non vogliono arrivare a qualcuno. Ma chi? Quel brutto bastardo è uno dei pezzi più grossi lì dentro.”
“Sei più andato ai processi del ragazzo?” chiese Anna.
“Sì, ma non ho notato niente di particolare, fra il pubblico non vedevo qualcuno che faceva segni, o qualcosa di sospetto. Quel gran bastardo però sembrava ansioso, almeno l’ultima volta che l’ho visto. Ricordo che nei primi processi era molto sicuro di se, anzi se non mi sbaglio lanciava degli sguardi provocatori al giudice….ma forse è solo una mia impressione.”
“Ansioso?” chiese Anna afferrandosi una ciocca di capelli, iniziò a giocherellarci concentrandosi sui dati appena raccolti. “Io di solito divento ansiosa, quando aspetto qualcosa che non arriva; oppure quando un lavoro che sto facendo non va come si deve. Hai detto che all’inizio era sicuro di sé, e se magari chi doveva tirarlo fuori vuole dargli una lezione? Sai per fargli abbassare la cresta.” Disse continuando ad arricciare la ciocca con le dita.
“Sì, potrebbe anche essere, infondo è stato portato spesso alla caserma per i casini che faceva; però non è mai stato arrestato, gli facevano l’interrogatorio e poi andava tranquillo a casa. Ma rimane comunque strana la faccenda.” Le rispose Fabio. Anche lui si concentrò e prese a sfogliare i vari fogli e foto che aveva sul caso. Le riposò bruscamente, gli venne un gran mal di testa, tanto che fu costretto a massaggiarsi le tempie.
“Accidenti non riesco a concentrarmi.” Sbottò il detective “non avresti per caso un’aspirina?” chiese.
“No, però conosco un modo efficace per far passare il mal di testa.” Gli disse sorridendo, si sollevò e si inginocchiò alle spalle del detective. Lo invitò a sdraiarsi, e gli fece poggiare la testa sulle proprie gambe. Fabio si sollevò imbarazzato, ma Anna lo spinse di nuovo giù “Non ti faccio nulla, fidati di me.” Gli disse risoluta, lui allora si rilasso, lasciandosi massaggiare le tempie e la fronte. Fabio chiuse gli occhi e annusò il profumo della donna. Era ormai da troppo tempo che non si concedeva un attimo di riposo. Aveva sofferto: per settimane non aveva chiuso occhio la notte, rivedendo nei suoi incubi l’istante in cui il suo amico più caro perse la vita. Si era buttato a capofitto nel lavoro, e aveva iniziato ad indagare anche dopo il suo turno.
“Ti ricordi cosa mi avevi detto quando mi avevi fatto l’interrogatorio? Mi avevi detto che volevi incastrare Carusi perché aveva ucciso un tuo amico. So che sarà difficile, ma ho bisogno di saperne i dettagli, forse troveremo qualche punto di contatto, chi era il tuo amico? E perché è morto?” chiese Anna tutto in un fiato, come se avesse paura che facendo una pausa non sarebbe riuscita a finire la frase. Fabio si sollevò, e lei ebbe la sensazione che si fosse infastidito, e si sentì invadente, ma nonostante ciò voleva sapere.
“Dovevi fare la detective, sei portata sai?” disse Fabio. Insinuò la mano nella tasca dei pantaloni e prese il portafogli, lo aprì e lo passò alla donna. C’era una foto di lui ed un altro uomo, dai capelli corti e chiari, mostravano all’obbiettivo il loro distintivo nuovo di zecca. Entrambi avevano un espressione gioiosa dipinta sul viso. Quello dai capelli chiari aveva passato un braccio attorno al collo di Fabio, stringendolo in modo che entrasse nell’inquadratura. Anna vide che c’erano altre foto. Le prese e le guardò attentamente in silenzio. C’era una in cui erano in piedi accanto ad un barbecue, una con entrambi vestiti con una camicia hawaiana che se la spassavano ad una festa.
“Lui si chiamava Angelo Ferrini, era di Milano. Aveva fatto il militare qua a Sciacca nell’armata della polizia. Si innamorò di questo paese; così quando lo arruolarono definitivamente, decise di rimanere qui per sempre. Io e lui siamo diventati subito amici, e credo che lui sia stato l’amico più caro che avevo. Per me era come un fratello.
Quel giorno stavamo indagando su un gruppo che spacciava droga anche ai ragazzini di 13 anni. Eravamo così infuriati che non ci riposavamo neanche la notte per investigarci su. Scoprimmo che la roba veniva importata dal Messico, poi veniva elaborata qui nelle nostre campagne. Così abbiamo iniziato a vagare per le varie zone delle tenute. Siamo stati fortunati poiché trovammo quasi subito la base dove lavoravano la cocaina. Io volevo tornare in città per chiamare rinforzi. Ma lui insisti sul fatto che dovevamo sorprenderli, e che se andavamo via, loro sarebbero spariti dalla circolazione. Chiamai in ufficio per farmi mandare rinforzi. Allora con le pistole alla mano ci avvicinammo alla base. Lui fece irruzione…. Dio che stupidi che siamo stati.
Nel covo c’erano Carusi, il ragazzo sotto processo, ed altri suoi uomini. Iniziò una sparatoria e quel gran figlio di… si insomma Carusi gli sparò. Quando poi arrivarono i rinforzi, loro nel frattempo erano riusciti a fuggire. Lui era pieno di sangue…” le mani di Fabio iniziarono a tremare. “cercai di salvarlo, ma lui stesso mi fermò e sai cosa mi disse prima di morire? ‘compare, mi raccomando devi fotterli tutti e spacca il culo a chi dà la droga ai ragazzini. Dì a tua sorella che mi dispiace, ma non potrò portarla al castello sforzesco. Dille che la amerò sempre. E tu Fabio devi essere meno geloso di lei, devi proteggerla. E poi sei troppo serio devi divertirti di più compà.’” Fabio si morse il labbro, mentre le lacrime continuavano a pungergli gli occhi. “Quel paraculo aveva una relazione con mia sorella e non mi aveva mai detto nulla.”
Fabio rimase in silenzio a osservare la foto del suo amico. Trasportato dai ricordi non fece neanche caso che aveva appena confidato delle cose personali.
Anna si sentì stringere il cuore, si avvicinò a lui e gli afferrò la mano.
“Non demoralizzarti, noi esaudiremo l’ultimo desiderio del tuo amico.” Gli disse dolcemente.
Fabio sentì il proprio cuore pompare più forte, quella donna gli piaceva sempre di più.
In quel momento si rese conto che aveva appena confidato le sue amarezze e i suoi sentimenti ad una ragazza che conosceva da poco. Non si sapeva spiegare il motivo, ma Anna aveva un atteggiamento così affettuoso e generoso che veniva naturale confidarsi e aprire il proprio cuore.
‘forse doveva fare la psicologa.’ Pensò Fabio, ma non si pentì di essersi aperto con lei. Aveva la sensazione di essersi avvicinato di più alla sua persona. Le sorrise un po’ imbarazzato ed annuì.
“Bene mettiamoci al lavoro!” disse Anna afferrando la borsa di Fabio.



Il medico aveva il tocco delicato mentre fasciava la caviglia di Maria. Lei aveva una voglia matta di chiedergli aiuto, ma nella stanza con lei e il medico, erano presenti anche Davide, che stava parlando al telefono, Michele e Gianni.
Il medico aveva curato Davide con una iniezione, e gli fasciò con cura la gamba. Un bel cerotto grande circa cinque centimetri per lato gli copriva una tempia.
Come aveva intuito Maria, il clima all’interno della casa era più teso, dopo la medicazione avevano chiuso la ragazza nella sua stanza e avevano sprangato la finestra in modo tale che non potesse smontarla facilmente. Rimase da sola per tutto il giorno,al buio; anche perchè l’interruttore della luce era all’esterno della porta. Stette sul letto tutto il tempo e aveva dormito a tratti, svegliandosi bruscamente quando sentiva dei rumori vicino la sua porta.
Era passato da un pezzo l’ora di cena quando nel silenzio si spalancò la porta della sua camera.
La luce che entrò le diede fastidio agli occhi, e non riuscì a distinguere a chi appartenesse la figura in controluce. Poi con un click la luce nella sua stanza divenne accecante. La figura prese la sedia e si accomodò accanto al letto. Quando gli occhi di Maria si abituarono alla luce con sollievo vide che era Davide. Sembrava arrabbiato. Le porse la cena, che Maria afferrò volentieri dato che aveva digiunato per tutto il giorno. Lei iniziò a mangiare mentre Davide la scrutava senza proferire parola, era totalmente immerso nei propri pensieri.
“Perché non piangi? Non hai paura?” chiese Davide all’improvviso.
Maria confusa lo guardò smarrita. “Prego?” disse.
“Sì, possibile che tu non hai paura? Sei stata rapita e non hai mai mostrato di essere spaventata o disperata, perché?” chiese imperterrito Davide. Maria si pulì le labbra al fazzoletto che gli aveva portato lui, poi lo guardò dritto negli occhi.
“Non lo so. So solo che se inizio a piangere non concluderò nulla. Però ti sbagli, io ho paura. Non sai che paura ho avuto quando mi hai rincorsa. Però quando mi hai difesa da Gianni, ho sentito che di te potevo fidarmi. Anche se siamo stati soli, tu mi hai portato rispetto. Quindi non mi sento così disperata. E poi, anche se non capisco il perché, mi state trattando bene.”
Davide la guardò in un modo strano: sorrise in modo dolce, quasi affettuoso. Il suo viso sembrava quello di un giovane innamorato che si stava perdendo nei suoi pensieri mentre contemplava la bellezza della propria amata. I suoi occhi avevano una strana luce, sembrava tutta un’altra persona.
Maria arrossì, e distolse lo sguardo imbarazzata.
“Sei una ragazza molto coraggiosa e combattiva. Ti ammiro.” Disse Davide
Maria iniziò a balbettare qualcosa di incomprensibile, scatenando la risata di Davide.
“E sei anche molto tenera, peccato che non ci siamo conosciuti in altre circostanze.” Disse lui con un sorriso amaro. Si alzò e stava per andarsene quando Maria gli afferrò il braccio.
“Non lasciarmi sola domani.” Disse lei “dopo quello che è successo sembra che avete intenzione di lasciarmi sola al buio tutto il tempo, ti prego dimmi che non è così.”
Davide tornò a sedersi “non lo so dipende da te.” Le rispose.
“Ti prego, domani rimani con me.” Insistì Maria.
Davide non rispose subito, limitandosi a osservare lo sguardo implorante della ragazza.
“Che c’è ti sei innamorata di me? Beh me lo aspettavo, nessuno mi resiste.” Disse con baldanza, e sorridendo come uno sbruffone. Maria si stupì di una risposta del genere. Ma capì che avrebbe accettato la sua richiesta. Così sorrise sentendosi rincuorata.
“Ma chi di te? Non fraintendermi, non mi innamorerei di te nemmeno se fossi l’ultimo uomo al mondo.” Disse Maria scherzando.
“Eh? Ma come?! Non ti piaccio nemmeno un pochino? No aspetta adesso ti farò sicuramente innamorare di me stai a guardare.” Fece Davide. Si voltò dandole le spalle, poi si rigirò verso di lei lentamente assumendo una posa che usavano spesso quelli che praticavano body building. L’espressione di Davide era talmente idiota che Maria scoppiò a ridere.
“Non hai ancora visto niente.” Disse lui assumendo un’altra postura ridicola.
In quel momento passò per caso Gianni e si fermò a vedere cosa stava succedendo. Quando sentì la ragazza ridere, e Davide fare l’idiota, gli venne un forte desiderio di picchiarlo. Soprattutto se pensava che qualche decina di minuti prima, avevano discusso sul fatto di legarla e imbavagliarla. Ovviamente Davide si era rifiutato categoricamente. Gianni non ne capiva il motivo.
Non riuscì a muovere un passo che fu distratto da Michele che gli poggiò una mano sulla spalla.
“Davide è bravo nel suo lavoro, su vieni con me dobbiamo rifornirci.” Gli disse.
Gianni esitò un po’ prima di seguirlo.
Davide e Maria rimasero a chiacchierare fino a notte fonda. Lui si era coricato accanto a lei per stare il più comodo possibile. Scoprirono di avere molte passioni in comune, come per esempio i fumetti. Entrambi amavano la musica rock e jazz. Poi quando Davide le sentì dire che amava il Giappone e la loro cultura, sprizzò gioia da tutti i pori; trascinato dall’entusiasmo glielo disse:
“Quando tutta sta storia finirà io ci andrò, e vivrò lì.”
Maria ebbe un tuffo al cuore, aveva scoperto che le piaceva: lui era uno di quei pochi ragazzi con cui stava bene. Le dispiaceva perdere un possibile amico come lui. Poi si ricordò che lui era pur sempre il suo rapitore, e si sentì una stupida. Capì che loro due appartenevano a due mondi differenti: non avrebbero mai potuto essere amici come tutti gli altri.
“Ti invidio molto.” Si limitò a rispondere lei, cercando in tutti i modi di non pensare alla brutta sensazione provata poco prima pensandolo come un amico.
Davide continuò a chiacchierare del più e del meno, poi quando furono abbastanza stanchi parlarono dei loro eroi preferiti fino ad addormentarsi.
 
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view post Posted on 25/10/2013, 13:15
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Capitolo 8



Anna si svegliò bruscamente: sentiva i padroni di casa litigare animatamente. Si vestì in fretta e scese al piano inferiore della casa, da dove provenivano le voci.
Passò per il corridoio e capì che le voci provenivano dal salotto. Mentre si stava dirigendo verso la stanza, la porta si spalancò e ne uscì la signora Rosa, visibilmente scossa. Non fece neanche caso ad Anna, le passò accanto infuriata e uscì di casa battendo la porta violentemente.
Anna allora entrò nel salotto, trovò il signor Antonio seduto sul divano che fissava il pavimento tenendosi la testa fra le mani.
“Signore…” iniziò Anna. Al suono della sua voce il giudice si sollevò.
“Va tutto bene?” chiese preoccupata Anna.
“Sì, non è niente di grave.” Rispose lui mogio. “La solita litigata fra moglie e marito.”
Anna però non credeva molto alla scusa. Anche perché vide che sul tavolino c’era una busta.
Era successo sicuramente qualcosa, e sapeva che centrava con quella busta sul tavolino. Doveva assolutamente leggerne il contenuto.
Osservò nuovamente il giudice, e notò che le occhiaie si erano fatte più profonde. Le venne una gran voglia di rivelargli ciò che stava facendo assieme a Fabio, per rasserenarlo. Ma non riuscì a dirlo, perché sapeva che lui non avrebbe capito. Sicuramente le avrebbe impedito di continuare le sue indagini, e lei per nulla al mondo poteva tirarsi indietro.
Così si morse il labbro e uscì dalla camera, attendendo che il giudice si allontanasse per impossessarsi della busta.
Il giudice, a dispetto delle sue speranze, si accomodò sulla poltrona. Si massaggiò le tempie ripetutamente prima di afferrare il suo cellulare. Lo guardò ancora indeciso. Poi cliccò sulla tastiera e infine cercò un numero nella rubrica. Poi finalmente si decise e chiamò.
“Pronto.” Rispose al telefono una voce annoiata e rauca.
“Giuseppe, sono io.. Nino, ho un urgente bisogno di parlarti in privato, vediamoci.” Disse in tono greve. In Sicilia avevano l’abitudine di abbreviare i nomi, e tra amici usavano spesso i nomi abbreviati, così Antonino divenne Nino.
“E’ successo qualcosa?” chiese Giuseppe stranito.
“Sì, ho bisogno del tuo aiuto.” Confermò il giudice.
Giuseppe capì che non era una questione di cui potevano parlare al telefono, così gli diede appuntamento nel suo ufficio.
Anna, sentendo la telefonata, intuì che stava succedendo qualcosa di importante. Attese che il giudice uscisse, poi, lo seguì di nascosto.
Il giudice si recò nella zona sud del paese, parcheggiò sotto la piazza Angelo Scandagliato. Anna ebbe difficoltà a seguirlo, poiché per arrivare alla piazza si dovevano salire quattro rampe di scale, ciascuna composta da una trentina di scalini. Il guaio era che se l’avesse seguito immediatamente, si sarebbe fatta scoprire. Fu costretta ad aspettare che il giudice salisse tutte le scale, poi lo seguì correndo. Arrivata in cima fu costretta a fermarsi qualche momento, per riprendere il fiato. ‘Accidenti, devo fare più esercizio fisico.’ Pensò. Sollevando il capo vide in lontananza il giudice entrare nel primo portone di via Roma a sinistra.
Anna sospirò, prima sollevata per non averlo perso di vista, poi sconfitta: non poteva mica seguirlo anche all’interno del palazzo.
Intanto il giudice arrivò alla porta di ingresso dell’abitazione del signor Giuseppe Ferdico.
Aprì proprio lui. “Nino che ci fai qui?” chiese visibilmente sorpreso. “Ma non dovevamo vederci in ufficio?” chiese con una punta di fastidio.
Il giudice non rispose subito, e Giuseppe notò immediatamente il suo sguardo stanco e pieno di speranza. Non se la sentì di rifiutarlo e lo fece accomodare in casa sua. Antonino ci era già stato in casa del suo amico, ma i mobili erano diversi, così come l’arredamento.
I mobili dallo stile classico avevano lasciato il posto a mobili moderni laccati di bianco e nero. Al posto del tavolo con le sedie c’era un comodo divano angolare in pelle. Al centro della stanza spiccava un tappeto bianco.
“Hai modernizzato casa vedo.” Commentò Antonino senza entusiasmo.
“Sì, conosci mia moglie, ama cambiare ogni tanto.” Disse accennando al giudice di sedersi sul divano. Dopo aver chiesto alla moglie di portargli due caffé prese posto accanto a lui.
“Dimmi Nino, cosa ti è successo? Sembri strano, direi distrutto.”
Il giudice si passò una mano tra i capelli, ancora indeciso, pensando se aveva fatto la cosa giusta.
“Hai problemi di soldi?” chiese Giuseppe.
“No!” rispose quasi infastidito il giudice. Dopodichè si passò le mani sulla faccia per scacciare via un po’ di stanchezza. Seguì un momento di silenzio.
“Giuseppe ho bisogno del tuo aiuto… è una cosa molto seria e difficile.” Disse Nino poggiandosi allo schienale, con il viso rivolto verso il tetto “devo sapere se posso fidarmi ciecamente di te.”
Giuseppe iniziò a preoccuparsi, “Ma che c’è? si tratta della mafia?” chiese con il cuore in gola.
Antonino non rispose neanche, lo guardò dritto negli occhi, più serio che mai.
Giuseppe lesse subito nei suoi occhi la sua paura.
“Minchia!” esclamò attonito. Seguirono lunghi attimi di silenzio. Interrotto dall’ingresso di Calogera, la moglie di Giuseppe.
“Grazie curù.” Disse Giuseppe alla moglie, che timidamente poggiò il vassoio sul tavolino di vetro, di fronte al divano.
“Lasciaci soli, dobbiamo parlare di faccende serie.” Gli disse a bassa voce all’orecchio. Poi le diede un bacio sulla guancia. E la moglie capì che la faccenda era troppo seria per poter ascoltare.
Quando furono di nuovo soli, Giuseppe bevve un sorso di caffé.
“Nino, di me puoi fidarti ciecamente, e lo sai benissimo; ma devi dirmi che problemi hai e come posso aiutarti, il tuo silenzio mi sta uccidendo.” Disse sfinito dall’attesa.
“Mia figlia è stata rapita.” Disse in un soffio, Antonino.
Giuseppe iniziò a tossire a causa del caffé andato di traverso.
“Tu sei l’unico di cui mi fidi, devi aiutarmi a trovare mia figlia, e liberarla.” Continuò il giudice.
“Ma cosa posso fare io da semplice investigatore privato?”
“Da investigatore privato niente, ma devi trovare gente fidata, magari qualche poliziotto che conosci di Palermo. Non lo so, io non so più che fare.”
Antonino gli raccontò ogni dettaglio, dalla telefonata alle lettere. Del suo litigio con la moglie contraria a chiedere il suo aiuto.
“Capisci? Se mi vedono fare qualcosa di strano con la polizia, mi mandano la piccola a pezzi. Ho bisogno che tu indaghi con i tuoi uomini più fidati.” Fece una pausa. Giuseppe intanto guardava il tappeto sotto i suoi piedi inespressivo. Sembrava che il suo cervello stesse ancora elaborando le informazioni per capirle. Aveva ascoltato con attenzione. Non immaginava di certo che potesse capitare una cosa del genere, in un paese piccolo come Sciacca. Eppure era successo.
“Mi aiuterai?” chiese Nino interrompendo il filo dei pensieri di Giuseppe.
“Non lo so Nino, insomma qui stiamo parlando di Carusi, è uno dei più potenti. Io non lo so, sono sorpreso, confuso. Ho bisogno di pensarci su.”
“D’accordo, pensaci bene e poi fammi sapere.” Disse Nino esausto.




Maria si sveglio con un fastidioso senso di pesantezza sulla caviglia. Non appena aprì gli occhi la prima cosa che vide furono i capelli rossi di Davide. Poi vide le sue palpebre chiuse e le sue invitanti labbra socchiuse. Immediatamente notò il braccio del ragazzo avvolto attorno a se: come se la stesse abbracciando. Si alzò bruscamente, intimorita e imbarazzata. Il dolore pulsante alla caviglia le fece ricordare in un baleno tutto quanto:
La notte passata a chiacchierare, le risate, il suo profumo che ricordava gli alberi di arance. E la opprimente sensazione di desiderare ciò che non si potrà mai avere. Simile a quando lei desiderava stare con i genitori, ma loro non potevano perché lavoravano.
Davide mugugnò nel sonno, e si voltò supino, infilando il braccio sotto al cuscino. Maria arrossì, lui era con il torace nudo, i capelli sparsi sul cuscino, studiò la linea del collo elegante, e del petto liscio. Sembrava una statua scolpita da Michelangelo, poi però vide le guance rosa, l’espressione terribilmente infantile di chi non ha intenzione di svegliarsi.
Maria iniziò a ridere, intenerita e imbarazzata. Non le era mai capitato di svegliarsi accanto ad un ragazzo. Davide si svegliò. Si guardò in giro un po’ smarrito, poi si sollevò a sedere. Si grattò la testa e scoccò uno sguardo assonnato a Maria.
“Buongiorno.” Disse con la voce impastata dal sonno.
“Buongiorno.” Rispose Maria.
Il rossino si alzò da letto stiracchiandosi, e si dilettò in alcuni esercizi di streching. Puntò un dito sulla ragazza “Se si sapesse che ho dormito con una ragazza, senza toccarla con un dito, rovinerei la mia reputazione.” Disse.
Maria sorrise “tranquillo, non lo dirò a nessuno. Anch’io ho una reputazione da difendere.”
Davide si morse il labbro, “uffa, ma perché non ti ho conosciuta prima?” disse distrattamente.
“Dai, rimettiti in ordine, ti porto la colazione.” Disse, dopodichè la lasciò sola.
Tornò dopo qualche minuto, lavato e pettinato. Si sedette accanto a lei, e le porse il vassoio con la colazione, composta da: latte, brioche, e una tazzina di caffé. Maria accettò con piacere, dividendo con lui il pasto.
Mentre lei mangiava, Davide aveva voglia di picchiarsi da solo. Aveva deciso di non farsi coinvolgere personalmente, ma dopo la serata trascorsa assieme a lei, aveva capito che quello che sentiva non era solo attrazione fisica. Sentiva un alto livello di sintonia fra di loro. E poi lei era così coraggiosa, e così dolce. Maria era il suo ideale di femmina, la donna che aveva aspettato di conoscere, eppure non poteva toccarla. Si sentiva una tigre chiusa in gabbia.
Maria finì di fare colazione, nel tirarsi su con le braccia, le venne una fitta alla caviglia che la fece gemere.
“Ah dimenticavo che il medico mi ha detto di mettere questa sulla caviglia.” Disse Davide tirando fuori dai pantaloni un tubetto di crema. Sì sedette sul letto ai piedi di Maria, e le fece poggiare il piede tra le sue gambe. Le tolse delicatamente le bende; il piede era livido e leggermente gonfio.
“Cavolo, deve farti un male cane.” Esclamò Davide. Poi delicatamente le spalmò la crema sulla caviglia. Maria soffocò un piccolo gemito. Quel suono, a Davide, sembrò tutt’altro che di dolore, anche se lo era. Nella sua mente sembrò un suono sensuale, un dolce invito.
La guardò negli occhi intensamente. Maria arrossì, mentre la mano di Davide iniziava a salire dalla caviglia verso la coscia. La pelle di Maria era così liscia e morbida, sembrava che venisse messa in risalto dalle grandi mani di Davide, con le nocche ossute e venose, tipiche da uomo. Lui avvertiva la voglia di morderle le cosce, di saltarle addosso e baciarla.
Quando lui arrivò al ginocchio, Maria gli fermò la mano.
“Guarda che la caviglia è più in basso.” Gli disse timorosa.
Dal suo sguardo, da come aveva tremato, lui capì che Maria non aveva ancora conosciuto un uomo a letto. La sua ammirazione crebbe, assieme alla sua voglia di conoscerla meglio.
-Cazzo, cazzo. Lei mi piace un casino, come farò a resistere? Quando cazzo fanno uscire a quel idiota. Non resisterò ancora a lungo.- pensò frustrato.
In quel momento lo squillare del suo cellulare, lo salvò dai suoi pensieri lascivi.
“Sì, va bene. Arriverò fra qualche minuto.” Disse, e chiuse la chiamata.
Si voltò verso Maria, uno sguardo diverso da quello precedente: sembrava preoccupato.
“Io devo andare, torno fra qualche oretta. Tu non fare sciocchezze. I miei colleghi non sono come me, loro sarebbero capaci di chiuderti in una cassa assieme a dei topi.”
Maria deglutì a vuoto. “N-no, non farò nulla. Ma tu sbrigati ok?” disse senza pensarci su.
Davide le sorrise intenerito, lottò contro se stesso per impedirsi di andare a baciarla.
Maria rimase sola nella stanza, confusa, eccitata, felice…poi, triste. Si era accorta che il contatto che aveva avuto con Davide non le era dispiaciuto. Il suo tocco delicato e caldo le piaceva, i suoi occhi poi, avevano il potere di incantarla. Avrebbe voluto che continuasse, lo avrebbe lasciato fare volentieri, per assaporarsi le emozioni che le riempivano il cuore, ma la ragione ebbe la meglio, e riuscì a fermarlo. Si era sentita bene in sua compagnia, avvertiva il desiderio di stare ancora con lui, ma poi una profonda tristezza si fece spazio nel suo stomaco. Sapeva che lei e Davide non potevano avere nemmeno un’amicizia in futuro, figuriamoci una storia.
Sapeva che in circostanze normali, lei lo avrebbe evitato, conoscendo il tipo di vita che faceva.
Lei sognava di diventare un medico, di fare qualcosa nella vita che l’avrebbe resa fiera di se stessa.
Doveva assolutamente togliersi dalla testa che Davide era affascinante. Doveva essere decisa e allontanarlo, anche se la solitudine e il buio la terrorizzavano. Soprattutto sapendo che gli altri due non la vedevano di buon occhio. Invece, nonostante tutto non volle rinunciare alla compagnia di Davide. Non sopportava rimanere sola, altrimenti strani pensieri le offuscavano il cervello. Mentre Davide aveva il dono di distrarla. Così anche se sapeva che non doveva farlo, decise che solo per il periodo di prigionia, lo avrebbe trattato come un amico. Si convinse che una volta uscita da lì, non lo avrebbe rivisto mai più. Quindi poteva anche concedersi il lusso di farci amicizia.

Anna intanto passeggiava nervosamente per la piazza. Si era preparata una borsa grande di paglia da usare come scusa. Se mai l’avesse sorpresa il giudice, avrebbe detto che stava andando alla “chiazza” a comperare un po’ di frutta. Ridiscese per l’ennesima volta la via. Incurante dei sguardi di alcuni anziani che passeggiavano lì vicino.
“Anna!” disse una voce maschile alle sue spalle.
Anna si voltò preoccupata, poi sospirò sollevata.
“Ciao Salvatore.” Rispose sorridente, subito dopo il sorriso gli morì sulle labbra quando vide il labbro spaccato e l’occhio nero e gonfio del cugino. Anna assunse subito una espressione preoccupata e gli afferrò il viso fra le mani, inspirando aria per fare le sue domande. Salvatore che la conosceva sollevò una mano e si scansò dalla presa impedendole di chiedere qualsiasi cosa. Poco dopo la invitò a prendersi un caffé, e lei ne approfittò per fargli qualche domanda.
Innanzitutto voleva sapere come aveva fatto a farsi un occhio nero.
Lui le rispose che non era niente di grave e che non doveva preoccuparsi.
“Hai scoperto qualcosa?” gli chiese. Salvatore le fece cenno, con un dito sulle labbra, di non parlarne in quel luogo. Così dopo essersi rinfrancati con un caffé, si misero a passeggiare in piazza.
Era a pianta rettangolare, da un lato vi era una strada stretta che divideva con la via Roma, dal altro lato c’era una ringhiera e da lì si poteva ammirare il panorama di Sciacca, del porto e alcune spiagge lontane. Ai lati perpendicolari cioè a sud vi era una piccola chiesetta, con un modesto giardino e una fontanella al centro del giardino.
“Allora? Hai qualcosa da farmi sapere?” chiese impaziente Anna.
“Cavolo, sono quasi geloso di questa ragazza. Sembri così attaccata a lei, manco io che sono un tuo parente!” si lamentò Salvatore.
“Dai lo sai che voglio bene a quella ragazza, come fosse la mia sorellina.” Disse per poi guardarlo ansiosamente negli occhi.
“Beh, qual cosina l’ho scoperta. Ma prima mi dici perché camminavi su e giù per la via Roma, mica è sabato sera?!”
“E’ che ho seguito il signor Alassi, e ho visto che è entrato in quel palazzo, e volevo scoprire da chi fosse andato. Speravo che uscisse con la persona che è andato a trovare. Ma non è ancora sceso.” Spiegò Anna guardando ripetutamente verso il portone.
“Stamattina ha chiamato un tizio e poi è uscito di fretta, credo si trattasse del tizio che abita lì. Ma non so chi sia.” Disse ancora, poi afferrò il braccio del ragazzo.
“Forza dimmi che hai scoperto.”
“Dunque, non è molto, ma ho notato che non si vedono più in giro alcune facce. Ho fatto finta di cercare Davide Giummare, per alcune cose, ma mi hanno detto che è impegnato in un lavoretto che lo farà stare fuori paese per un po’.. E sai una cosa, sono spariti anche i suoi due compari, con cui lavora spesso. Ovviamente anche loro due per lavoro. E non so il perché ma ho la sensazione che ci siamo vicini. Ho fatto qualche domanda in giro, e mi hanno detto che quei tre lavorano per Don Carusi. Ovviamente questa informazione mi è costato l’occhi nero. E da lì ho capito che questo Davide, è uno dei protetti di Luigi Carusi. Adesso è il massimo che ho scoperto.”
Anna lo abbracciò “Ti sbagli hai scoperto tantissimo!” gli disse raggiante. Quando rivide il livido sull’occhio Anna si rattristò nuovamente. “Ma adesso basta così, se ti hanno conciato così per delle domande, non oso immaginare cosa potrebbe succederti. Ti prego di perdonarmi: ti stai mettendo in pericolo per colpa mia. Non voglio che ti succeda niente. Sei l’unica famiglia che ho.” Gli disse mentre gli carezzava una guancia con fare materno.
Salvatore le sorrise, e passò un braccio attorno alle sue spalle.
“Lo so cuginetta mia, vale anche per me.” Disse dandole un bacio sulla guancia. “Ma non preoccuparti, mi avevano picchiato perché pensavano che fossi un poliziotto. Ma per fortuna è arrivato uno che mi conosce e mi ha aiutato, garantendo per me.”
Anna però era ugualmente preoccupata. Salvatore se ne accorse dal suo silenzio.
“Che mi racconti? Fa il bravo lo sbirro? O devo minacciarlo di morte?” le chiese scherzosamente.
“Ma smettila, è un brav’uomo.” Lo riprese lei.
“Sarà…., ma ho visto come ti guardava le tette.”
“Non è vero!!!” sbraitò Anna dandogli una pacca sulla testa.
“Ti giuro, ti guardava le tette, se non lo fermavo io, quello a momenti sbavava.” Continuò Salvatore.
Scherzarono per un paio di minuti così, poi si misero a parlare di musica e del progetto di Salvatore per andare in America. Lui le disse che andava a gonfie vele, e che stava anche studiando l’inglese, e per scherzare le parlava in inglese, per dimostrarglielo. Mentre parlavano del più e del meno, incontrarono il signor Alassi che era appena uscito dal palazzo. Il giudice li saluto e chiese ad Anna come mai fosse lì in piazza, invece di essere a casa sua a pulire.
“Sono venuta a comprare delle verdure per oggi a pranzo.” Rispose prontamente Anna.
“E chi è questo giovanotto?” chiese il giudice, scrutando Salvatore. Non gli andava molto a genio: era trasandato, con i capelli lunghi castani fino alle spalle, i piercing sul naso e sul sopraciglio. Due occhi marroni dallo sguardo un po’ truce. Si notava che era molto giovane, non poteva avere più di 19 anni. Aveva l’aspetto di un bullo secondo il signor Alassi, non gli piaceva il modo di fare di quel ragazzo.
“Lui è mio cugino Salvatore.” Disse Anna, mentre Salvatore tese la mano al giudice. Il giudice annuì
“Piacere.” Disse “Io vado di fretta mi attendono in ufficio.” Così dicendo si congedò.
Quando il giudice era ormai lontano, Salvatore sbuffò. “ma come fai a lavorare con questa gente che ha la puzza sotto il naso?” chiese infastidito.
“Ma no, il signor Alassi è un brav’uomo, cerca di comprenderlo, è teso per sua figlia.” Spiegò Anna.
“Ma sono tutti bravi uomini per te?”
Anna gli diede uno scappellotto. Poi si mise a ridere. In effetti il signor Alassi un po’ di puzza sotto il naso l’aveva. Anche se era gentilissimo con lei.
Il cugino chiese ad Anna di ascoltarlo mentre suonava il suo sax. All’inizio Anna rifiutò poiché voleva andare da Fabio e comunicare le novità. Ma il cugino insisté talmente tanto, che per fargli piacere accettò. La portò in un garage, dove lui teneva i suoi strumenti musicali.
Anna notò subito i grandi progressi che aveva fatto il cugino. Era diventato molto bravo a suonare. Si commosse. Quando il cugino smise di suonare, lei applaudì, con gioia.
“Totò sei diventato bravissimo, sono sicura che farai successo in america.” Disse.
“Sì, e poi ti ci porterò. E ti farò fare la vita da signora. Non sarai più costretta a fare la governante, perché avrai una tua cameriera personale che ti farà anche i massaggi ai piedi.” Le disse con gli occhi sognanti.
Anna si meravigliò, non pensava che suo cugino avesse considerato anche a lei nel suo progetto.
“E lì potrai studiare come detective. Diverrai la più brava, io lo so!” disse ancora Salvatore. Anna si era dimenticata che da bambina desiderava diventare una poliziotta. Quando i suoi genitori morirono, non ebbe più pensieri sui suoi sogni, gli unici pensieri che aveva erano solo per sopravvivere all’indomani. Si era dimenticata cosa si provava quando si sognava ad occhi aperti. Si era persino dimenticata che sognava di aprirsi un ufficio di detective privata.
“Ma ormai…” disse Anna, come se volesse dire che era diventata troppo vecchia.
“Ormai che cosa? Cazzo sei giovanissima, puoi fare tutto quello che vuoi. E vedrai che io ti aiuterò a realizzare i tuoi sogni.” Disse con la luce della determinazione negli occhi.
Anna gli sorrise dolcemente, rallegrandosi di vederlo così pieno di entusiasmo; lei ormai non viveva quelle emozioni da troppo tempo, improvvisamente si sentì molto vecchia, sentì che ormai l’entusiasmo di un tempo non sarebbe mai tornato, così lo guardò, mentre lui metteva via i suoi strumenti e lo invidiò.



Davide arrivò alla villa di Don Carusi in perfetto orario, trovò i soliti gorilla al portone. E come tutte le volte gli tolsero l’arma e lo perquisirono. Davide li fece fare tranquillo. Luigi non si fidava di nessuno, nemmeno di sua madre, ed era normale che prima di arrivare a lui c’erano questi tipi di controlli.
“Ammettilo che non centrano gli ordini, e che ne approfitti per toccarmi.” Scherzò Davide.
Piero, l’uomo che lo stava perquisendo grugnì qualcosa contro di lui.
“Mi dispiace per te, ma a me piacciono le ragazze.” Continuò imperterrito Davide.
“Cammina che il capo ti aspetta, e se ti azzardi a dire un’altra minchiata del genere, ti ci faccio arrivare storpio.” Lo minacciò.
“Scherzavo, mamma mia come sei permaloso.” Disse il rossino, mentre l’altro uomo se la rideva sotto i baffi.
La villa era sempre tenuta in un perfetto ordine, e Luigi sguazzava nella sua piscina privata. Dalla piscina, spaziando con lo sguardo,oltre il giardino, a destra, si vedevano le spiagge di capo San Marco, che continuano fino a disperdersi nell’orizzonte; alla sinistra invece si vedevano le scogliere, che separavano la spiaggia renella, da capo San Marco. La veduta da quel angolazione era da togliere il fiato. Davide si avvicinò tranquillamente alla piscina e si accomodò sulle sedie a sdraio, mentre attendeva che Luigi Carusi uscisse dall’acqua, o che comunque si avvicinasse a lui per parlare. Dopo che il capo si fece una vasca, uscì e si accomodò accanto a Davide, facendosi portare due Drink.
Luigi era un uomo di mezz’età, era un uomo che ci teneva al proprio aspetto, infatti spesso si dedicava allo sport. Si curava nello vestire e nell’aspetto. Era un uomo affascinante, e Davide voleva essere come lui alla sua età: bello da fare ancora strage di cuori.
“Come va tra i campi?” chiese Luigi rivolgendosi a Davide.
“Bene.” Rispose Davide tranquillo.
“State trattando bene la ragazzina? Ricordalo anche agli altri due che non dovete torcere un capello all’ostaggio.” Disse Luigi mentre si godeva un altro sorso della sua bevanda. Fece una lunga pausa, prima di continuare. “Fa attenzione a quel deficiente di Gianni; si dice che ultimamente tenta a far carriera. Anche con roba che non è sua. Sicuramente proverà anche a fregarti il posto.”
“Tsk, devono passare cento anni prima che lui riesca a farlo.” rispose Davide stizzito.
“Vedi, il fatto è che sa lavorare bene, ma non sa usare il cervello, quindi fagli abbassare la cresta, o sarò costretto a fare a meno di lui.” Disse Luigi tranquillamente, come se avesse parlato di una sciocchezza quotidiana. Davide sapeva benissimo cosa intendeva il suo boss, e non era di certo chiacchierare e fare il discorso a Gianni. Era costretto nuovamente ad essere duro e violento.
Davide si era chiesto fin dall’inizio perché l’ostaggio era speciale, e come mai dovevano trattarlo bene. Avevano sempre avuto carta bianca in quel tipo di mansioni. Eppure con Maria, il capo aveva chiesto particolarmente di trattare con i guanti la ragazza. Quasi fosse un parente.
Il capo si fece fare un resoconto della situazione nel rifugio. Davide non disse che la ragazza aveva tentato di fuggire; aveva omesso che era ferita. Se lo veniva a sapere, lui e i suoi uomini erano spacciati. Alla fine il capo soddisfatto, lo lasciò andare dandogli nuove direttive su cosa dire e fare con il giudice.
Tornato al rifugio, trovò tutto al loro posto. Gianni e Michele erano spaparanzati in cucina, a gustarsi un anguria. Davide prese due fette e si recò nella stanza di Maria.
La ragazza era seduta sul letto con le ginocchia strette al petto. Quando lo vide sollevò immediatamente la testa. Lui le sorrise e le porse la fetta di anguria.
“Com’è andata?” chiese tranquillamente.
“E’ andata bene.” Disse Maria. Dopo aver addentato il frutto, Maria si accorse che Davide era strano, sembrava più pensieroso del solito, e mangiava il frutto, con lo sguardo perso nel vuoto.
“Stai bene?” chiese Maria.
Davide scrollò la testa “Sì, sto bene, sono solo un po' stanco.”
In realtà, Davide, stava pensando di evitare di dare una lezione a Gianni, infondo, era l'ultimo lavoro a cui prendeva parte, e non aveva voglia di farsi dei nemici. Gianni, teneva rancore per molti anni, ed era anche un tipo ambizioso. Se si giocava male le carte, il suo progetto di espatrio poteva andare in fumo.
Pensava che se dava una lezione a Gianni, forse lui non avrebbe abbassato la cresta, ma si sarebbe infuriato di più, alimentando la sua voglia di vendetta, e sopratutto di rivalsa su un ragazzo giovane come lui. Se poi si metteva contro di lui, poteva smascherare la sua fuga dall'italia, e rovinare la sua vita per sempre, dato che spesso lavoravano assieme.
Guardò Maria, gli venne una gran voglia di portarsela via con se. Avrebbe potuto conoscerla meglio e lasciarsi andare ad una bella storia d'amore. Ma era troppo rischioso, non era un idiota, sapeva che doveva dimenticarsi di lei, e allontanarsi, decise di farlo immediatamente, anche per il bene della ragazza. Eppure, guardando i suoi occhi azzurri si rese conto che non aveva la forza di farlo. Quelli potevano essere gli ultimi istanti vissuti accanto a lei. Non che provasse già affetto per lei, ma non capitava mica tutti i giorni, di trovare una ragazza con cui si stava bene. Maria era intelligente, coraggiosa e sopratutto bella. Dopo quell'avventura non l'avrebbe più rivista, quindi cambiò idea e decise di godersi la sua compagnia, fino a quando ne aveva la possibilità.

Capitolo 9




Davide si svegliò di buon ora. Era passata un'altra settimana, e lui stava cominciando a prenderci gusto per quella impresa. Aveva preso più confidenza con la ragazza. Passava la maggior parte del tempo assieme a lei. Chiacchierando, mangiando, leggendo assieme dei libri. Una volta Maria aveva chiesto se poteva avere dei fogli e delle matite. Davide esaudì il suo desiderio, prestandosi anche come modello per i disegni di Maria. Davide scoprì che era molto brava sia a disegnare che a inventarsi storie. Davide invece aveva talento come fotografo, il suo soggetto preferito era Maria. La fotografava spesso quando per esempio assumeva un espressione particolare, oppure in penombra mentre dormiva. Davide si sentiva molto bene assieme a lei. Non c'era mai un momento in cui si annoiavano, spesso si capivano con uno sguardo. E capitava che Maria riuscisse a leggere i suoi pensieri attraverso gli occhi.
“Come ci riesci?” aveva chiesto una volta lui.
Maria gli rispose che non lo sapeva neanche lei. A poco a poco a Maria non interessava più tornare a casa, sperava che la sua permanenza in quel posto durasse il più a lungo possibile.
Sapeva che non era normale provare una sensazione del genere. Ma quando vedeva il sorriso di Davide, le sue preoccupazioni, e i suoi dubbi svanivano.
E i giorni passavano sempre nella sua stanza, su quel letto in ferro battuto e la finestra sprangata.
La caviglia era guarita. Sembrava che andasse tutto bene.
Una notte Davide entrò in camera della ragazza. Si avvicinò a lei adagio svegliandola.
All'inizio Maria ebbe il dubbio che lui volesse sedurla, invece le disse di seguirlo.
Se la portò sulla terrazza. Il cielo era limpido e in alto troneggiava la luna piena. La luce rischiarava tutta la valle intorno a loro. Le cicale frinivano, e l'aria era fresca.
“Beh qui si sta meglio della tua stanza che sa di metallo, non trovi?” disse Davide inspirando l'aria fresca.
“Wow, c'è una vista fantastica.” rispose Maria osservando il panorama: vedeva chiaramente le fronde degli alberi dai colori cineree, la terra era nera e da quel punto vedeva il maestoso olivastro che campeggiava solitario in un campo arato, mentre all’orizzonte si vedevano le luci della città, e in cima alla città si ergeva San Calogero, la basilica con sotto le stufe termali naturali, formate dai condotti vulcanici ormai spento. I ragazzi si sedettero sul muretto che fungeva da parapetto, godendosi lo spettacolo notturno.
Lei intrecciò i piedi e guardò in basso verso la valle. Sembrava incerta su qualcosa poi prese coraggio e si voltò a guardare negli occhi Davide.
“Vedendoti sempre qui, mi chiedevo se hai una casa, se hai una famiglia?” chiese Maria. “Gli altri due per esempio si danno i turni, come se avessero una famiglia di cui occuparsi. Tu invece non ti fai mai problemi, e dato che spesso dormi qui, ho pensato che tu forse vivi solo. O magari la tua famiglia sa chi sei e non ti dice niente.”
“No, io sono sempre stato solo, sono un orfano. Non ho mai conosciuto nessun parente. Credo che i miei genitori non fossero nemmeno di questo paese. Non ho mai trovato qualcuno che potesse essere collegato a me. Sono cresciuto in un collegio, poi quando sono diventato grande, mi arrangiavo con quello che c'era in giro. La mia vita era uno schifo, poi arrivò lui, il boss e mi regalò una vita migliore.” Le rispose Davide serio e stranamente sereno.
“Ma a che prezzo?” lo interruppe Maria.
Davide serrò la mascella “già” disse con lo sguardo perso nel vuoto.
Maria si sentì in colpa per averlo rattristato. Eppure la affascinava quella espressione, aveva il fascino del bello e dannato. Si chiese cosa si provasse a essere soli al mondo, provò a immedesimarsi in lui. Aveva una vaga sensazione di capire il motivo per cui Davide non aveva rifiutato la proposta del mafioso. La solitudine era schiacciante, non riusciva a immaginare una sofferenza peggiore. Pensò che l’interessamento del suo capo, fosse per lui come un’ancora di salvezza: non sarebbe stato più solo, e non avrebbe più sofferto di stenti.
“Sono meravigliata. Perché nonostante tutto, tu non sei come gli altri. Sei buono, ma molto forte.”
“Perché? Quanta gente mafiosa conosci tu? Chi ti dice che non sia solo una recita?” disse Davide.
“Una recita?” chiese quasi spaventata lei.
Davide sorrise “Magari sono il peggiore di tutti, il più sadico, potrei anche…”
“No.” Lo interruppe Maria sorridendogli in modo dolce. “Non uno che mi ha protetta in quel modo.” Si guardarono negli occhi, Davide si avvicinò a lei, desiderava baciarla. Maria non si mosse, rimanendo pietrificata al suo posto. Incoraggiandosi, Davide si avvicinò ancora, tentando di poggiare le labbra su quelle della ragazza. Maria sentiva il respiro di lui sulla guancia. Il cuore iniziò a battere forte, mentre le guance si imporporavano. Doveva allontanarsi porre fine a quella piccola illusione che gli stava dando, ma non ci riusciva, qualcosa la teneva ferma.
Improvvisamente Maria sentì un forte impulso a cui non poté resistere e starnutì. Nel farlo aveva portato velocemente la mano d’avanti alla bocca, colpendo sul naso il ragazzo.
Mentre Davide imprecava a bassa voce, tenendosi con la mano il naso dolorante, sentì la ragazza sbellicarsi dal ridere.
“Scusami, ti ho fatto male?” chiese lei mentre rideva.
“Nessuna mi ha mai rifiutato in modo così violento.” rispose scherzando lui.
Maria continuò a ridere mentre lui cercò di tornare normale, controllò meglio il setto nasale e notò che non c’era nulla di rotto, persino il bruciore era sparito.
Maria smise di ridere, o meglio frenò le altre risate, non voleva diventare scortese.
“Scusami è che mi è venuto freddo.” Disse continuando a sorridere. In effetti la sera era fresca e l’aria nella campagna era ancor più pungente che in città, Davide lo sapeva bene e di fatti aprì la zip della sua felpa e se la tolse coprendo le spalle della ragazza con essa.
Maria sorrise un po’ imbarazzata, quando lui faceva il galantuomo lei non sapeva come agire, si sentiva in imbarazzo, non era molto abituata a trattare con uomini del genere, i suoi coetanei erano per la maggior parte volgari e la trattavano come se fosse un compagno di giochi. Davide invece la faceva sentire una donna, una sorta di principessa, e non per nulla aveva iniziato anche a chiamarla in quel modo per scherzo, la svegliava chiamandola in quel modo. All’inizio Maria si sentiva infastidita da quel nomignolo, ma lui lo diceva così dolcemente che si ci abituò e lo trovò piacevole.
“Sente ancora freddo principessa?” chiese infatti qualche attimo dopo lui. Maria sorrise, il rossore sulle sue gote non era sparito. Scosse la testa.
“No, non più.” Disse stringendo la felpa su di sé. Maria non aveva dimenticato che lui aveva tentato di baciarla, e sperò in qualche modo strano che lui se ne fosse dimenticato. Così per non dargli una nuova occasione tornò a guardare la valle illuminata dalla luna.
“Sono passati un sacco di giorni da quando mi avete presa, sai alle volte mi chiedo cosa avete chiesto come riscatto. So che se fossero stati soldi io ormai sarei già a casa da parecchio. Sono preoccupata per mio padre, in televisione ho visto che è dimagrito molto, e ha due occhiaie spaventose.” Si girò di nuovo verso Davide e lo guardò negli occhi, doveva esserci curiosità nel suo sguardo, impazienza o qualcosa che dovesse comunicare che voleva andarsene, invece lo sguardo di Maria era lo sguardo di qualcuno che doveva partire, che avrebbe dovuto lasciare la sua famiglia per un posto lontano e sconosciuto.
“Quanto ancora dovrò stare qui con voi?” chiese; nella sua voce non c’era alcuna traccia di paura. Era combattuta con se stessa. Voleva andarsene, ma non voleva dire addio a Davide. E lui sembrò intuirlo o forse si era illuso che fosse così.
“Davide, una volta tornata a casa che accadrà se ti incontrerò pe…”
Le sue parole furono bruscamente interrotte dalla bocca di Davide che si posarono sulle labbra morbide e sensuali di Maria. Davide non aveva più resistito. Per non farla fuggire via, per impedirle di farsi rifiutare la abbracciò stretta fra le sue braccia, premendo con forza le labbra su quelle della ragazza.
Maria mugugnò sorpresa e un po’ spaventata, tentò di spingerlo via, ma le sue braccia erano intrappolate fra i due corpi. Davide non aveva resistito, dopo le parole di Maria improvvisamente ebbe una paura folle che una volta uscita da lì, lei lo avrebbe dimenticato per sempre, oppure che le venisse comandato di ucciderla o di spaventarla talmente tanto da renderla pazza. Aveva agito di istinto, il suo cuore gli diceva che non doveva permettere che lei pensasse di andarsene. Era stufo di starle vicino e comportarsi come un amico, era stufo di sudare freddo quando sentiva il calore del suo corpo vicino. Era ancora più stufo di farsi in continuazione docce fredde. In quel abbraccio trasmetteva tutta la sua brama di averla. La desiderava e a quel contatto ormai non ragionava più, continuò a baciarla, sempre più appassionatamente. A occhi chiusi, come se avesse paura di scorgere una sua espressione di repulsione, non voleva vederla in quel modo, voleva soddisfare il suo egoistico istinto di quel momento. Quando sentì sotto le labbra la ragazza che lo ricambiava si calmò un po’ strinse di meno senza però lasciarla andare. Il bacio divenne meno pressante ma più complice. Non si era mai sentito così soddisfatto in vita sua, non si era mai sentito così bene come in quel momento mentre la stringeva fra le sue braccia. Gli sembrò di sentire la felicità, soprattutto quando le loro lingue si sfioravano. Davide era immerso in un mondo a parte, aveva dimenticato tutto, se in quel momento gli avessero chiesto come si chiamasse, lui non sarebbe stato in grado di rispondere. Era tutto così strano, man mano che i battiti cardiaci si calmarono anche la ragione era tornata a farsi viva: stava sbagliando. Il bacio divenne sempre meno intenso fin quando non divenne un piccolo bacio a fior di labbra. Si allontanò un po’ dalla ragazza, sciogliendo anche la stretta attorno a lei. La guardò negli occhi colpevole, come se avesse abusato di lei.
“Oddio che ho fatto?!” sussurrò mettendosi le mani fra i capelli.
“Scusami, io non avrei dovuto.” Disse eppure sentiva ancora sulle labbra quel desiderio di baciarla ancora, sapeva che aveva sbagliato, eppure non si sentiva affatto pentito.
Maria abbassò lo sguardo, aveva ancora il cuore che batteva forte nel petto per l’emozione. All’inizio si era spaventata, non se lo aspettava, per un momento aveva creduto che volesse abusare di lei, ma poi sotto le dita sentì il battito del cuore di lui. Sentì come le sue mani serrate attorno al corpo avevano tremato. Si era lasciata andare e lo aveva trovato piacevole. Però perfino lei sapeva che non avrebbero dovuto farlo.
“Torniamo dentro, la luna rende gli uomini deboli.” Disse Davide con un sorriso amaro, cercando di sdrammatizzare. Maria obbedì in silenzio tornando sul suo giaciglio, su cui avrebbe passato la notte da sola. Davide infatti decise di lasciarla sola il più a lungo possibile.


Anna si trovava in cucina a preparare il pranzo, si sentiva sempre più esausta. Erano passate due settimane da quando Maria era stata rapita. Stava perdendo le speranze, ma sopratutto la pazienza.
Tagliava le melanzane svogliatamente, mentre aveva una gran voglia di piangere e sfogarsi.
Voleva rivedere Maria. Desiderava che fosse tutto un incubo, e che si sarebbe svegliata da un momento all'altro. Quindi sarebbe scesa in cucina, e ci avrebbe trovato Maria, come tutte le mattine che guardava alcuni cartoni animati, mentre si gustava un caffè. Dunque come al solito, Anna le chiedeva se volesse un po' di latte, che lei avrebbe rifiutato, come al solito. E avrebbe passato una solita banale giornata, tra faccende domestiche e musica.
Invece, con l'arrivo del giudice in cucina, ogni illusione sparì, rendendosi conto che la realtà era crudele. Il giudice era impeccabile nel suo abito formale, pettinato bene, ma aveva occhiaie profonde. Anche il giudice diventava sempre più stanco.
Anna si chiese se era il caso di continuare a fingere di non sapere nulla. Sembrava che i due coniugi, non si rendessero conto della sofferenza che provava lei. Probabilmente erano troppo preoccupati per Maria, per accorgersi anche di lei. E a lei sinceramente faceva solo comodo.
“Quando tornerà, la piccola?” chiese improvvisamente Anna.
Il giudice sembrò sorpreso, si era dimenticato che le avevano mentito.
“Presto, tornerà presto.” aveva risposto Antonino, con un sorriso triste. Era sempre stato negato a nascondere le proprie emozioni. Anna pensò che era meglio raccontargli la verità, e dirgli che sapeva del sequestro. Si morse il labbro, e serrò la mano attorno al manico del coltello che stava usando poco prima per tagliare del pane.
“Signor Alassi, io dovrei....” non finì la frase che il suo cellulare iniziò a suonare.
Lesse sul display “Fabio”. Anna lasciò immediatamente tutto quello che stava facendo e si recò in un'altra stanza. Rispose immediatamente, speranzosa di buone notizie.
“E' stato avvistato un uomo segnalato da Salvatore.” disse Fabio all'altro capo del telefono.
“Mi ha chiamato tuo cugino, e mi ha detto che lo stava seguendo.”
“Merda! Si metterà nei casini.” disse Anna preoccupata.
“Sono sotto la villa, esci con una scusa, e andiamo a fermare tuo cugino, io ci ho provato, ma non mi ha dato retta. Siamo ancora in tempo. A te ascolterà.” disse Fabio.
Anna non se lo fece ripetere, si tolse il grembiule e si indirizzò verso l'uscita.
“Dove vai Anna?” chiese il giudice che era appena uscito dalla cucina.
“Ho dimenticato l'aglio, vado a comprarlo e torno subito.” disse lei, per poi uscire in fretta.
Il giudice aggrottò la fronte, mentre osservava la treccia di aglio appesa alla parete della cucina.

“Dove si trova quel pazzo di mio cugino?” chiese Anna in ansia, mentre montò in macchina.
“Stava aspettando che questo tizio uscisse dal bar, era appena entrato. Quindi siamo in tempo.”
Fabio fece una pausa prima di continuare: “Volevo seguire il sospettato da solo, senza dare nell'occhio, ma tuo cugino con uno scooter si farà scoprire senz'altro. Per prima cosa dobbiamo fermare tuo cugino, e poi scoprire se quello è il bar abituale di quel tizio. Se fosse così, e loro hanno Maria, abbiamo vinto.”
Fabio guidò la sua macchina sfrecciando prima nel centro, poi si diressero verso il bar chiamato “Westside”. Era un bar vicino al ponte che portava verso Sant'anna; sotto al ponte, c'erano due svincoli, uno che tirava per Agrigento, e l'altro che invece portava verso Palermo.
Quando arrivarono, Anna scese immediatamente. Dirigendosi all'ingresso, videro che non c'era nessuno Scooter che potesse somigliare a quello di Salvatore. Fabio e Anna si precipitarono all'interno del locale. Ma non c'era ne suo cugino, ne Gianni: l'uomo che Anna vide nelle foto segnaletiche.
“Merda!” esclamò Anna. Si mise una mano tra i capelli. Spaziando con lo sguardo notò Stefano, un amico di suo cugino Salvatore.
“Ciao Stefano, hai visto mio cugino?” chiese senza mezzi termini.
“E' uscito pochi minuti fa. Avevi un appuntamento con lui?” chiese ingenuamente l'amico.
“Sai dove si è diretto?” chiese Fabio.
Il ragazzo lo guardò con diffidenza, poi guardò Anna, riluttante a rispondergli.
“Lui è il mio ragazzo, ha dimenticato una cosa nel suo Scooter. Gli serve per lavorare.” gli disse per reprimere ogni suo sospetto.
“Non lo so, ho visto che con lo Scooter ha preso la via per la fondovalle.” disse poi finalmente.
Anna e Fabio sgattaiolarono subito fuori. Anna aveva un brutto presentimento.
“Lo ha seguito senz'altro, quello scemo per fare piacere a me lo ha seguito.” disse Anna con la voce rotta per l'emozione.
“Ma tuo cugino è innamorato di te o cosa?!” sbraitò Fabio confuso.
“Che vai a dire? Salvatore è la mia unica famiglia. Siamo come fratello e sorella.” disse quasi adirata. “Che c'è sei geloso?” sbottò lei senza mezzi termini.
“Figurati, io geloso?” rispose. In circostanze normali, non avrebbero avuto una conversazione simile. Fabio sapeva del profondo legame che c’era tra loro. Era stata l’agitazione a farlo straparlare.
“Merda più avanti ci sono due svincoli, dove diavolo si sarà infiltrato?” disse Fabio.
“Io conosco quello di sinistra, e so che porta a mare, verso San Marco.” Rispose Anna.
“Lì c'è la casa di Don Carusi, e se quel Gianni ha a che fare con il sequestro di Maria. Non può tenerla vicino al suo capo. Quindi io direi di provare lo svincolo a destra: quello che porta alla contrada Scuncipane.”
Presero per quella strada, guidò per alcuni chilometri, senza trovare alcuna traccia.
Ad un certo punto trovarono un incrocio: la strada di fronte a loro diventava sterrata, mentre alla loro sinistra continuava quella asfaltata. Stavano perdendo ogni speranza, quando Anna con la coda dell'occhio vide una cosa scura, alla sua sinistra, sulla strada asfaltata.
“Gira di qua, ho visto una cosa.” disse Anna. Fabio eseguì il comando. Dopo qualche centinaio di metri, trovarono lo scooter di Salvatore in mezzo alla strada; la plastica che ricopriva il motore era saltato, i fanalini erano rotti e i vetri erano riversi a terra, assieme agli specchi retrovisori rotti. A qualche metro più avanti giaceva al suolo Salvatore. Anna si precipitò fuori dal veicolo: i suoi occhi erano spalancati dal terrore. Si mise a correre verso il ragazzo. Quando vide la pozza di sangue espandersi sotto di lui urlò disperata, gettandosi sul corpo del giovane. Il viso del ragazzo era divenuta una maschera di sangue, uno zigomo era rotto, deformando il suo viso. La gamba sinistra era piegata in modo innaturale.
“NO!” urlò la donna. Mentre con mani tremanti gli carezzava la testa.
Fabio si avvicinò immediatamente, controllò il polso, poi il collo. Anna si immobilizzò al suo posto, sperando con tutte le forze che fosse ancora vivo, che Fabio gli dicesse di chiamare un ambulanza.
Ma lo sguardo di Fabio era triste, e scosse la testa lentamente.
“Mi dispiace, non c'è più niente da fare.” disse.
Seguì un straziante urlo di dolore; Anna si gettò sul corpo urlando e piangendo. “No, lui doveva andare in America. NON E' GIUSTO!” urlava tra i singhiozzi.
Invano Fabio cercò di calmarla. Dovette strapparla dal ragazzo con la forza.
“Calmati, cerca di calmarti.” Ripeteva Fabio, ma lei si aggrappò alla sua giacca piangendo disperatamente. Fabio la strinse a sé cercando invano di calmarla.
Mentre teneva la donna salda prese il suo telefonino chiamando la polizia.
“C’è stato un incidente, mandate un medico legale.” Disse.
Poi abbracciò Anna a sé lasciandola sfogare, si sentì in colpa ancora una volta, pensò che se lo avesse fermato con la forza non sarebbe successo nulla. Baciò sulla testa la donna e con uno sguardo carico di tristezza ripeté più volte.
“Mi dispiace, mi dispiace.”
 
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6 replies since 12/9/2010, 10:22   158 views
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